"Il Manifesto"   07 Novembre 2000
Una storia chiamata alle armi
IAIA VANTAGGIATO - FIRENZE

Coniata nel 1986 da Jürgen Habermas, l'espressione "uso pubblico della storia" è stata poi ripresa, in Italia, da Nicola Gallerano nel senso più proprio di uso pubblico della memoria storica, del complesso rapporto tra storia e memoria. Ora, là dove si decida di fare della guerra - e, in particolare, degli eventi bellici del Novecento - l'oggetto di un discorso sull'uso pubblico della storia (tema affrontato a Firenze, il 3 e 4 novembre, nel corso di un convegno organizzato dall'Istituto Gramsci toscano) alcuni nodi inevitabilmente emergeranno: la legittimazione storica dei conflitti, la preparazione di una opinione pubblica favorevole, la propaganda, la costruzione di una memoria della guerra che può trasformarsi anche in sua rimozione. Novecento, dicevamo, perché è in questo secolo che la politica, anche nei suoi esiti bellici, per legittimarsi si serve della storia; Novecento, ancora, perché è a cavallo tra anni '80 e '90 che affiora l'ansia diffusa per un passato nazionale condiviso che - per essere costruito - ha bisogno di quei miti e di quei simboli di cui la storia è grande dispensatrice.
Pensiamo a un conflitto, come quello del Kosovo, in cui tutti i contendenti hanno abusato della storia per costruire o rafforzare le identità balcaniche: basti, per tutte, "il richiamo dei Serbi a un lontanissimo passato di sconfitta, ma anche di difesa, di martirio come avamposto della cristianità contro l'invasione islamica" (Santomassimo).
Novecento, infine, perché è nel suo ultimo decennio che la legittimazione della guerra fa leva su un immaginario collettivo che si fonda sul paradigma della guerra antifascista e antihitleriana. Lo ha spiegato molto bene Gianpasquale Santomassimo nel corso della sua densa relazione introduttiva: "Solo nell'ultimo decennio l'immaginario democratico dell'Occidente ha assunto valore di paradigma. E anche di gigantesca narrazione collettiva, l'unica universalmente accettata come punto di riferimento. Dai vincitori come dagli sconfitti".
E' insomma con la fine della guerra fredda che la lotta al fascismo e al nazismo diventa paradigma. Da qui l'esigenza di individuare "nuovi Hitler" da combattere: Saddam Hussein nel periodo della guerra del Golfo, Milosevic nel conflitto balcanico. In questo caso, però, non è più solo l'Hitler delle conquiste territoriali a essere evocato ma il creatore di Auschwitz, il responsabile del genocidio degli ebrei. L'esito è una banalizzazione sconsiderata della Shoah che viene paragonata a una delle tante guerre civili di media intensità: "Ciò che non è riuscito a Nolte - ha affermato Santomassimo - è riuscito alla Nato". E' qui che si verifica lo sciagurato passaggio da un uso pubblico a un uso politico della storia. Ed è qui che cominciano a risuonare gli stereotipi della guerra giusta, etica, "umanitaria", dell'ultima guerra, quella che pone fine a tutte le guerre. Suoi cantori sono l'allegra schiera degli interventisti democratici cui, nel corso dell'incontro, era dedicato l'efficace intervento di Angelo d'Orsi: una tradizione, quella dell'interventismo democratico, che nasce con la guerra di Libia e di cui si faranno interpreti entusiasti Salvemini e Bissolati convinti che, per rimanere nel solco della tradizione occidentale, fosse necessario schierarsi per la democrazia e la patria.
L'interventismo democratico, insomma, produce guerre democratiche: "Per sostenere le ragioni dei buoni - afferma d'Orsi - si fa ricorso al magazzino della storia: risorgimento, ultima guerra, IV guerra d'indipendenza. La parola chiave è guerra giusta e, su questa via, la democrazia si esporta con le armi". Per non parlare, poi, della sindrome del missionario dove non è difficile vedere come "la croce si trasformi in spada" (d'Orsi).
Dell'uso del risorgimento da parte dell'interventismo democratico si è occupato nella sua relazione anche Massimo Baioni consonante con d'Orsi nel giudizio su Salvemini.
Una tradizione, quella dell'interventismo democratico, che la guerra del Golfo riprende e rilancia. Il ricorso alla storia, come sostiene d'Orsi, si fa qui sempre più necessario per la preparazione propagandistica e la mobilitazione di intellettuali, "uomini di cultura che diventano costruttori di verità. E il tutto "in nome di una democrazia sempre più impolitica". Sul finire del Novecento, insomma, l'uso della storia diventa centrale nella mobilitazione, nelle motivazioni e nella memoria.
Anche e soprattutto in Germania, come ha dimostrato l'illuminante relazione di Enzo Collotti: "Da entrambe le guerre sostiene Collotti - la Germania è uscita sconfitta e l'eredità della sconfitta ha pesato come un macigno su ogni fase dell'elaborazione politica, storica e culturale dell'esperienza del conflitto e del suo incontro con la memoria della guerra". Eredità legata a una precisa periodizzazione che va dalla Repubblica di Weimar - nel corso della quale "la memoria della guerra monopolizzò buona parte degli atteggiamenti pubblici legati alla costruzione di una identità democratico-repubblicana" - al Terzo Reich Fondamentale durante il quale "l'uso pubblico della storia rappresenta il cuore della cultura politica del nazionalsocialismo". Nel corso del Terzo Reich la storia diventa propaganda tout court così perdendo ogni autonomia epistemologica. E' propaganda per la rinascita della nazione, per la potenza tedesca, per la preparazione alla guerra. Nel caso della Germania furono, inoltre, gli stessi storici responsabili della generazione politica dell'uso della storia.
Di particolare interesse, tuttavia, sono le riflessioni che Collotti dedica all'uso della storia nel periodo successivo alla sconfitta del Terzo Reich dove a una prima fase in cui il ricorso alla guerra era completamente bandito seguì - all'inizio degli anni Cinquanta - una frantumazione dell'apparente unitario fronte pacifista. Oggetto di discussione è l'esperienza sulla Wermacht: "poteva rappresentare un modello esemplare per una futura forza armata tedesca e quale eredità poteva trasmettere?" Nasceva in quegli anni la leggenda di una Wermacht pulita. Intense le pagine che Collotti dedica al discorso che il cancelliere Brandt tenne l'8 maggio del 1970, venticinque anni dopo la fine della guerra: "Brandt nel ricordare la guerra iniziata da Hitler rendeva omaggio alle vittime e ammoniva il popolo tedesco dell'importanza di farsi consapevole della propria storia perché 'nessuno è affrancato dalla storia che ha ereditato'". Una storia che la Germania fatica a elaborare: che si tratti delle celebrazioni dell'8 maggio o della guerra contro la Jugoslavia che "non serviva certo a risolvere il problema dell'oppressione dei kossovari ma a ripulire la falsa coscienza dei tedeschi e a ovviare alle lacune del processo di elaborazione del passato".
E nel dibattito su uso pubblico e uso privato della storia si fa spesso strada, nel convegno fiorentino, il tema della propaganda definita da Nicola Labanca "la prosecuzione della guerra con altri mezzi" e la cui evoluzione segue quella della guerra stessa: dai conflitti consumatisi tra fine '800 e inizi '900 alle guerre mondiali, alla guerra fredda, a quelle combattute tra la metà degli anni '70 e i primi anni '90 (Faulkland, Haiti) alle guerre dell'ultimo decennio del secolo appena passato: Golfo, Somalia, Kossovo. Per ogni guerra una propaganda, si potrebbe dire. Ma ciò che più conta è il nesso tra propaganda e democarazia a conferma che l'abuso (politico) della storia non è patrimonio esclusivo dei regimi totalitari. Da una connotazione della propaganda come antitetica rispetto alle libertà formali del pensiero democratico al considerarla come assolutamente necessario agli istituti della democrazia. Interessante anche il rapporto tra propaganda di guerra e evoluzione tecnologica: è la prima infowar della storia quella che viene combattuta nel Golfo, tanto potente nel suo impatto mediatico da riuscire a alterare profondamente l'immaginario stesso della guerra.
Impossibile, in questa sede, dar conto di tutti gli interventi: da quelli sui conflitti balcanici di cui si sono occupati Antonio Sema e Marco Galeazzi, all'interventismo degli intellettuali (Maurizio Vaudagna), al ruolo della storia nelle guerre francesi (Massimo Mastrogregori), alle guerre di Stalin (Francesco Benvenuti), al ruolo delle donne nella guerra (Emma Schiavon), all'uso pubblico della storia nel Terzo Mondo (Gianni Sofri).
Un piccolo cenno merita però l'intervento di Sandro Portelli che ha sottolineato come negli Stati uniti sia prevalsa una lettura in termini biblici - la guerra è guerra contro il diavolo e per il bene - degli avvenimenti: "di altro non si tratta che del dispiegamento nella storia mondana dell'archetipo atemporale della storia sacra".
Un'altra angolatura per interrogarsi, prima ancora che sull'interventismo democratico, sulla democrazia stessa e sul nesso - troppe volte dato per scontato sino alla fine del bipolarismo - tra democrazia e libertà. Che sia questa la chiave per riuscire a capire perché la democrazia venga troppo spesso esportata con le armi?