in "Avvenimenti" n.115 11.05.99 "Avvenimenti - Ultime Notizie, giornale dell'Altritalia"

A SINISTRA PACE O GUERRA

INTERVISTA ALLO SCRITTORE EDOARDO SANGUINETI

Fa "un brutto effetto" stare a parlare di un governo, con una forte presenza della sinistra, impegnato in una guerra all'unisono con gli intenti dell'amministrazione Usa. "Tutta un'eredità di progetti e riferimenti, non dico di ideali, sono stati messi in disparte in maniera sorprendente e precipitosa". Il poeta e critico Edoardo Sanguineti sui "dolori" della sinistra tra pace e guerra.   MARCO MARRA
La guerra. Le sinistre. Il rapporto cultura-politica. Ne parliamo con Edoardo Sanguineti, poeta, narratore, e critico tra i più importanti del secondo Novecento italiano. A lui, che è quasi il paradigma dell'impegno intellettule vissuto come specifica determinazione di quello politico, cominciamo col chiedere innanzitutto che effetto fa vedere gestire dai suoi ex referenti politici una guerra da casa all'unisono con gli americani. "Un brutto effetto - ci dice in un sospiro - È doloroso che tutta un'eredità di progetti e riferimenti, non dico di ideali, siano stati messi in disparte in maniera così sorprendente, precipitosa e poco argomentata. Qui devo fare una premessa a titolo personale. Non sono mai stato iscritto al Pci, anche se vi ho militato. Col suo dissolversi ho cercato di mantenere al possibile rapporti con entrambi i suoi eredi, perché sono tra coloro che hanno cercato di adoperarsi per ricomporre quella frattura. Oggi è più difficile, ma devo dire che di fronte alla guerra la maggiore prossimità è con la attuale posizione di Bertinotti che pure, quando pose il problema dell'uscita dalla Nato, mi lasciò abbastanza perplesso".

E invece ....

E invece Bertinotti ci aveva visto bene. Forse non si trattava di mettere le cose in modo secco, dentro o fuori, ma partire realisticamente dalla considerazione che la Nato non poteva avere più le funzioni di una volta, che si trattasse quindi di ridiscuterne il senso, la funzione e, soprattutto, di rivedere lo status giuridico delle basi italiane. Detto questo, era ugualmente possibile per il governo prendere le distanze dall'intervento militare, non solo per via della Costituzione, ma per la violazione dello stesso statuto Nato. Avremmo anzi potuto opporci in qualche modo senza venir meno ai termini dell'Alleanza. Mi pare un'occasione perduta.

Come giudica la posizione degli intellettuali italiani davanti alla guerra?

Intanto c'è stato un lungo silenzio iniziale, come se non si fosse percepito che stava accadendo qualcosa di molto grave e "duro". Ci sono poi stati alcuni interventi, alcune firme contro... Tuttavia mi pare che la mobilitazione sia come priva di impegno pubblico e di dibattito. Non credo sia una questione di volontà, ma il semplice risultato degli slogan sulla fine delle ideologie che ha provocato una grande sfiducia nel dibattito ideale, nel valore della politica, nella partecipazione alla vita pubblica.

Forse con le ideologie si son buttati via gli strumenti di analisi.

Ma sì, perché gli strumenti analitici sono forme ideologiche. Se io cerco di interpretare la realtà lo faccio alla luce di un'idea, di un'ipotesi, di un metodo. Se io abbandono dei punti di riferimento qualcuno dirà che mi libero di schemi, ma ne avrò semplicemente assunto degli altri.

Ha avuto delle delusioni da parte di qualcuno che non sia aspettava?

Una delusione, ne accennavamo in un incontro pubblico insieme a Natta a Genova, è per la posizione di Bobbio. Lui è sempre stato un punto di riferimento per tutta una cultura di borghesia intelligente ed evoluta, un punto di vista critico e con una sensibilità verso i temi della filosofia del diritto molto forte. Ora questa specie di proclamazione di assoluta fiducia nei valori dell'americanismo, chiamati proprio con questo nome ("bisogna essere filoamericani", "la scelta giusta è quella e non può essere che quella") sgomenta.

Si è dato una spiegazione?

Non lo so. Forse una spiegazione di base c'è. Quando mancano delle alternative significative è chiaro che le cose tendono ad appiattirsi enormemente. Persino gli americani pare fossero preoccupati di fabbricarsi presto un nemico, un'alternativa, proprio per potersi definire. Solo che se, ahimè, è cercato così alla cieca - oggi mi butto su Saddam Hussein, domani sulla Libia, dopodomani sopra i serbi - non è che io ottengo un'alternativa: semplicemente gestisco, e male, un potere che non ha più confini.

Lei rappresenta un po' il prototipo dell'intellettuale "engagé", in un tempo in cui forse ce ne sono pochi disposti a esserlo. Le chiedo: sono cambiati i rapporti tra la cultura, e in particolare la letteratura, e la politica in questi decenni, e come?

Sì, e molto, credo. Perché la cultura sembra essersi "liberata" da un debito, come del resto dicevo prima quanto all'ideologia, nei confronti dei rischi di prestare servizio, più di quanto criticamente sia giusto, a posizioni politiche determinate. Questa libertà è diventata però in realtà un disimpegno puro e semplice. Non è che si sia approfittato di questo per assumere atteggiamenti critici più articolati, più meditati, dal momento che non c'era più l'urgenza di schierarsi con affanno.

L'autonomia, insomma, è diventata silenzio.

Sì, è diventata silenzio, disinteresse, lontananza. La cultura ha ripreso un andamento per un verso di tipo più accademico e freddo, e per altro verso naturalmente, si è lasciata dominare dal mercato.

Cerami ha scritto sulla "Stampa" che "la sinistra può farsi forte di un'idea "morale" del capitalismo". È questo il suo destino, essere la coscienza morale del capitalismo?

Mi pare molto difficile conciliare il capitalismo con un'idea morale (ride fragorosamente, ndr). Che la sinistra, nella storia italiana come in gran parte della storia europea, abbia rappresentato la resistenza delle classi popolari di fronte allo sfruttamento capitalistico (usiamo proprio i vecchi cari termini), questo mi pare vero. Se è questo che chiamiamo coscienza morale può anche funzionare.

Sempre Cerami, e lo cito perché mi pare rappresenti un modo di pensare assai comune, scrive che "i segni che formalizzano il linguaggio della sinistra attuale sono esplosi negli anni Sessanta e Settanta e oggi hanno difficoltà a raccontare oggettivamente il presente".

Io penso invece che mantengano il loro senso, solo che non vengono più impiegati. Diciamo che s'è persa una guerra. Qualsiasi cosa si pensi del socialismo reale, esso rappresentava pur sempre un punto di riferimento. Un percorso molto travagliato e contraddittorio, certo, molto anche... non dico criticabile, ma per tanti aspetti anzi veramente condannabile ed equivoco. Era però l'idea di un'altra strada possibile nel complesso della storia umana. Si è avverata in realtà una profezia marxiana, e cioè che il compito del capitalismo era la globalizzazione, il mercato mondiale. Questo è stato realizzato. È a questo punto che può cominciare davvero una storia diversa. Ciò che oggi è venuto però completamente meno è la coscienza di classe: con quella che era, diciamo pure, l'acqua sporca del socialismo reale è stato gettato via anche il bambino. Il mondo dei lavoratori non è più cosciente dei suoi interessi. E come è solito accadere, quando il capitalismo vince dà poi la delega alle sinistre di fare i lavori più sgradevoli, le quali ci mettono poi uno zelo superiore persino a quello richiesto.

Nel celebrare il trentennale del "manifesto", Pintor ha scritto che "nacque come rivista mensile dentro il Pci per frenarne la deriva, che diventerà degenerazione". E aggiunge: "Chi avrebbe immaginato in quei giorni, in quel partito, che sarebbero stati questi personaggi a portare l'Italia in guerra? Fecero bene a cacciarci". E io le chiedo: lei, come altri che non fecero o subirono quella scelta, si sente responsabile in qualche modo della "degenerazione"?

Non so. Io capisco che Pintor debba rivendicare una sua storia... È molto difficile stabilire quale sia il punto di svolta, perché si tratta certamente di una cosa progressiva. Io credo di no, che il vero punto di crisi cominci con la gestione Occhetto. Non direi mai che l'epoca di Berlinguer sia stata un'epoca degeneritiva. Si poteva essere o no d'accordo con tante sue posizioni, ma rappresentava un grande riferimento di valori e di posizioni, era un uomo che diceva la verità con grande coraggio. Credo molto semplicemente che c'è stata una guerra perduta, torno a dire, a livello globale, ed è stata perduta nella nazione. Se non vogliamo parlare di guerra fredda e di socialismo reale diciamo che c'era comunque un conflitto tra capitalismo e proletariato che aveva assunto infinite strade: la Cina e l'Unione Sovietica, Cuba, il comunismo italiano, certe forme di comunismo sudamericano. Sono state sconfitte in blocco.

Non le pare però notevole che siano proprio gli sconfitti a gestire la vittoria del nemico?

Credo però che questa regola sia molto più frequente di quanto non appaia nella storia. La vittoria non è stata solo materiale, anche perché non è stata condotta sul terreno delle armi. Quando si è giocato sul terreno delle armi, l'episodio forse più clamoroso è stato il Vietnam, l'America ha perduto, c'è poco da fare. Lì il capitalismo si è impantanato. È stato un conflitto per molti versi economico: il socialismo non è riuscito a funzionare per le scelte economiche che ha compiuto, e il capitalismo aveva buon gioco a strozzarlo sul piano militare e dello sviluppo tecnologico. Comunque è chiaro che la battaglia è stata male condotta.