in: Libertas Labronica n.11 dicembre 2000

PER RESTITUIRE LO SPORT AI GIOVANI

di: don Paolo Gambini pedagogista e psicologo

Fra i tanti giubilei di quest'anno c'è anche quello degli sportivi. Questa è certamente un'occasione per celebrare ma anche per riflettere. Come si legge nel capitolo 25 del Levitico l'anno santo corrisponde alla remissione dei debiti dei poveri, alla restituzione dei terreni e delle case ai proprietari originari ed alla restituzione della libertà agli schiavi.

In mezzo a tutte queste "restituzioni" mi sembra giusto provocare chi organizza lo sport a restituire lo stesso ai giovani. Al di là di ogni slogan invito ogni società sportiva a domandarsi quale sia il suo scopo prioritario. Una domanda tutt'altro che secondaria. Dalla sua risposta infatti dipende tutta l'impostazione societaria. Se lo scopo è quello di vincere allora è giusto selezionare gli allievi e far fuori i peggiori, comprare o vendere senza l'assenso dell'interessato, puntare tutto sulla prima squadra ecc. Se, invece, l'obiettivo primo è quello di aiutare i giovani a crescere e a maturare, le prospettive saranno ben diverse.

Io mi schiero per la seconda possibilità. Oggi più che mai i giovani hanno bisogno di adulti attenti ed interessati alla loro crescita, hanno bisogno di educatori. Il modello di sport a cui guardo è quello nel quale l'allenatore o il dirigente non è solamente un tecnico ma un educatore, ossia un adulto interessato a tutta la vita del bambino, dell'adolescente o del giovane a lui affidato.

Ora la vera educazione consiste in una promozione integrale del soggetto in evoluzione. La scuola, la parrocchia, la società sportiva non educano se si preoccupano solamente di insegnare la storia o la geografia, il catechismo o a giocare a calcio o a pallavolo. Anche se questo è il loro specifico per educare occorre ben altro. E' necessario anzitutto sapersi porre in relazione con il giovane.

La persona è un'insieme di bisogni. E' un corpo che necessita di movimento, un'intelligenza che ha bisogno di istruzione, un essere spirituale che chiede di essere accompagnato nella sua ricerca di senso. Ma la persona è anche affettività, un individuo bisognoso di essere riconosciuto, di sentirsi stimato, di valere agli occhi di qualcuno. L'azione educativa scatta solamente quando l'adulto si fa attento soprattutto a quest'ultimo bisogno dell'educando. Da allenatori o dirigenti si diventa educatori quando la relazione diviene il primo interesse. Il tecnico sportivo è attento prioritariamente delle capacità fisiche dell'atleta, l'allenatore-educatore, invece, di allacciare una relazione educativa con lo stesso.

In altre parole come i genitori sono chiamati ad offrire ai figli, oltre a dei beni materiali, un clima affettivo dove questi possano sentirsi stimati e riconosciuti, così l'educatore (allenatore, insegnante, catechista, ecc.) deve falsi carico di una simile paternità o maternità nei confronti dell'educando. Capisco che questo compito sia tutt'altro che semplice ma altrettanto alta è la posta in gioco. Visto che to scopo primo dell'educare è costruire una relazione che possa dirsi educativa, guardiamo ora, seppur brevemente, alcuni dei suoi elementi. Anzitutto l'allenatore o il dirigente deve essere capace di passare dal rapporto col gruppo a quello con il singolo. Deve essere in grado di far sentire ciascuno una parte significativa di tutta la squadra anche chi nello sport non è il primo. Questo richiede l'abilità di fare amicizia e di guadagnare la simpatia di tutti rendendo visibile il proprio affetto senza privilegiare alcuno. Comporta la capacità di entrare in punta di piedi nella storia e nel vissuto di ciascuno rispettando la maggiore o minore voglia di raccontarsi.

Due atteggiamenti necessari all'educatore sono anche la capacità di osservare e di dialogare. Osservare per capire il mondo interiore dell'altro anche quando questo non venga palesato. Per chi conosce ed è attento ai suoi ragazzi il comportamento degli stessi è più loquace di ogni discorso, è capace di "prendere la palla al balzo", di avvicinare e rivolgere al giovane la parola giusta nel momento del bisogno. A questo proposito purtroppo la cronaca ci ha abituati che dopo un gesto inconsulto, per esempio di un giovane che uccide i suoi genitori per estorcergli del denaro, gli intervistati, vicini di casa o parenti, rispondono quasi sempre così: "sembrava un ragazzo come tutti gli altri!". E' proprio il caso di dire che gli adulti sono molto distratti!

Un altro elemento essenziale alla relazione educativa è il dialogo, ma ancor più importante, specialmente oggi, è l'ascolto. Gli adolescenti ed i giovani hanno bisogno di essere ascoltati. Nel tempo in cui devono superare vari compiti di sviluppo il confronto con gli adulti è per loro essenziale anche se, poi, non trovano il coraggio di farlo per la paura di essere giudicati o non compresi. L'educatore ha il compito di saper agganciare il giovane e l'allenatore, per il carisma che ha agli occhi del ragazzo, ha a volte a disposizione più carte degli stessi genitori.

Certamente si potrebbero dire molte altre cose a riguardo del rapporto educativo. Mi fermo qui. Ciò che mi premeva era quello di aiutare a far comprendere la ricchezza di uno sport, "restituito ai giovani": azione di promozione umana e non solo sportiva. Uno sport dove lo scopo primario di chi organizza è il fine educativo piuttosto che quello agonistico. Un sport che rispetta i bisogni del soggetto in evoluzione piuttosto che schiacciare lo stesso sul modello adultistico della "serie A", dove la priorità è data all'efficienza ed a risultato.

So quanto oggi una proposta del genere rappresenti un'autentica sfida ma mi piace ugualmente credere che allenatori e dirigenti, seppur col rischio di perdere il campionato o di essere etichettati di "serie B", preferiscano essere degli educatori piuttosto che dei tecnici.