Cultura : Una storia di cartoon    Generazione "Candy Candy"

L'insostenibile pochezza dell'essere

di DANIELA GAMBINO   in "Avvenimenti" n.13  1998
la psicoformazione dei giovani italiani fra i venticinque e i trent'anni ha dei nodi esistenziali comuni. Che non sono l'eredita' politica e le rivoluzioni sociali del '68 come si potrebbe banalmente presumere, ma la sindrome di "Candy Candy"
"Candy Candy" e' un cartone animato di duemilionicinquecentomila puntate di venti minuti ciascuno che imperversa sugli schermi italiani da almeno sedici anni, su reti locali piu' o meno amene, in perenne replica. L'unica cosa che si evolve di "Candy Candy" non e' la storia, sempre uguale e facilmente riassemblabile anche se ti sei perso le prime venti puntate, ma la sigla, che prima era cantata dai "Rocking horse", letteralmente "cavallo roccheggiando", e adesso e' passata ad altre mani difficilmente identificabili, per me, che ormai mi sono completamente disintossicata di "Candy Candy", dopo essermi assuefatta in terza media, ed essere uscita dal tunnel dalla dipendenza dieci anni dopo.

Ma perche' "Candy Candy" e' stata dannosa per la nostra formazione?, Candy, innanzitutto, era orfana, questo la rendeva estremamente libera di andarsene in giro per il mondo a rischiare violenze sessuali pedofile, noi, che avevamo i genitori, ci sentivamo complessati, sognavamo di non essere figli naturali, in modo cosi', da scoprire d'essere adottati, per averci una scusa plausibile e andarcene anche noi per il mondo a cercare i genitori veri. Anche "Heidi", cartone che aveva preceduto di poco le avventure di Candy, era un orfana, ma ci aveva un nonno, che s'occupava di lei, e poi era una vera salutista, con le sue guanciotte colorate che i disegnatori giapponesi avevano prontamente reso disegnandole due tondini rosa, e facendola correre, scalza, sui prati delle alpi svizzere, bevendo latte di capra direttamente dalle tette delle caprette che "le facevano ciao", in barba al tetano e alla salmonellosi. Anche in quel caso i complessi non si contavano, prima di tutto perche' nessuno di noi poteva vantare un paio di tondini rosa sulle guancie, se correvamo sui prati dovevamo metterci le scarpe e se vedevamo una capretta, oltre a non poterle ciucciare le tette, quelle si guardavano bene dal farci "ciao", ma poi come fa a farti "ciao" una capretta?, non ci ha mica le mani!. Ma tornando a Candy, lei, benedetta ragazza, a un certo punto, con piglio deciso si fa infermiera, perche' capisce, con un'illuminazione, che quella e' la sua vocazione.

Certo, l'avevamo vista, gli sceneggiatori avevano inserito qua' e la', lungo il corso dell'intreccio, delle scene in cui Candy curava gli amici febbricitanti ponendogli degli stracci bagnati in fronte. Ma, hei!, ripigliati Candy!, fra questo e un'endovenosa o svuotare il catetere di un'ottantenne passa una belle differenza! Troppo tardi, il giorno dopo, decidemmo, tutti, in blocco, di fare gli infermieri, di aiutare il prossimo, insomma. Candy, un migliaio di puntate prima, s'era innamorata di un tizio incontrato una sola volta su una collina, mentre suona una cornamusa, che le aveva detto "sei carina quando sorridi". A noi, parve naturale potersi innamorare di un tizio veduto una sola volta, vestito con un kilt scozzese per giunta, che ti circuisce con una sola frase. Niente di piu' improponibile per dei giovani italiani, dove lo trovi uno in kilt capace di suonare la cornamusa di cui innamorarti follemente e ripensarci per vent'anni?. Ma poi, t'immagini, presentare agli amici un fidanzato che porta la minigonna. Questo vuol dire convivere con la frustazione.

Candy ci metteva di fronte alla nostra pochezza e ci insegnava la carita' cristiana, non per niente era stata educata da miss Pony e da Suor Maria nella mitica "Casa di Pony". "Candy Candy" ci ha instillato il senso d'attesa e la famosa sindrome da "crocerrossina", tutto questo buonismo mascherato sotto un aspetto d'eroina ribelle con i boccoli d'oro fermati da nastri colorati. Molto meglio lo spirito di sacrificio di "Lady Oscar", altro personaggio finito sotto le matite dei nipponici, donna-uomo a capo delle truppe del Re di Francia in odore di rivoluzione, il primo transgender della storia dei cartoni animati, che si immola per amore della regina Maria Antonietta, della patria, del conte Fersen e dell'amico-amante Andre' e chi piu' ne ha ne metta regalandoci pure un paio di scene erotiche, mentre quella squinternata di Candy scambia un solo bacio con un certo Terence, un pomeriggio di Maggio, in cui le loro bocche diventano una, proprio cosi', la disegnarono con una linea sola, e lei, per ripagarlo, le stampa una sberla in faccia. E noi, assuefatti, cosi' commentammo"ha fatto bene" .

Se adesso ricordiamo meglio le parole di"Ufo Robot" e "Candy, oh, Candy nella vita sola non sei tu", invece dell'inno di Mameli, e le cantiamo ai cortei e alle marce di protesta, un motivo ci sara'. Vuol dire che i cartoni di quel tempo erano piu' presenti di certe tematiche culturali. Allora ti potevi permettere di guardare la tivvu' senza sentirti in colpa.


Aspirazioni da crocerossina, morale "da carita' cristiana",
in attesa perenne del principe azzurro. Siamo cresciute cosi', noi venticinque-trentenni,
con la sindrome di un cartone animato che aveva
per protagonista una ragazzina un po' stucchevole. Altro che Sessantotto...