NONVIOLENZA E MARXISMO NELLA TRANSIZIONE AL SOCIALISMO

di Alberto L'Abate    in "Testimonianze" gen-feb 1979 n.211

IL DIBATTITO SULLA "TERZA VIA"

Nel nostro paese è in corso un vivo dibattito sulla "terza via" al socialismo, in particolare tra socialisti e comunisti, che ha investito anche le tesi congressuali dei due partiti della sinistra storica italiana: Bobbio, Salvadori, da parte socialista, Berlinguer, Ingrao, da parte comunista, sono stati tra i principali attori di questo dibattito politico-strategico [1]. Ma come giustamente ha segnalato U.Cerroni tale dibattito "mette insieme senza distinzione due ordini di questioni: la questione del metodo politico di costruzione della nuova società socialista in occidente, e la questione della "figura" di questa società" [2]. E questi due livelli, mai chiariti del tutto, rischiano di trasformare questo dibattito in un dialogo tra sordi. Attraverso una equazione molto schematica e riduttiva [3] del leninismo - dittatura del proletariato - violenza e democrazia - società pluralista - libertà; i socialisti, discutendo sul primo di questi livelli, tendono a rifiutare al leninismo una legittimità nella tradizione occidentale nella quale non può esistere ed essere valida che la seconda di queste strade, che passa necessariamente dal voto e dal consenso generale ed è inquadrata in un governo democratico.

Tra "leninismo" e "democrazia" non può perciò esistere una "terza via", perché l'unica strada valida è quella democratica. I comunisti invece, rispondendo sul secondo di questi livelli, impostano il discorso sul modello di società da costruire, sostenendo la necessità e la possibilità di una terza via o "modello" di società da costruire tra il socialismo cosiddetto reale, burocratico, accentratore, e privo delle libertà fondamentali dei Paesi dell'Est, e le socialdemocrazie occidentali, che mantengono le libertà ma non sono riuscite a superare le forme di produzione "capitalistica", come ha del resto riconosciuto lo stesso Bobbio [4], ed avviare una trasformazione realmente socialista della società. In complesso nel dibattito i socialisti hanno puntato soprattutto sui "mezzi" di tale trasformazione, sostenendo l'impossibilità di portare avanti in Occidente la via "rivoluzionaria" seguita da Lenin in Russia, e la necessità di portare avanti tale trasformazione all'interno dei quadri "democratici". I comunisti invece hanno accentrato il loro discorso sui "fini" della propria iniziativa politica che non sono quelli di dar vita ad una società socialdemocratica, sul modello delle socialdemocrazie nordiche, ma neppure ad una società analoga a quelle dei Paesi dell'Est. Essi cioé rivendicano come fine dell'azione propria (e di altri partiti comunisti europei), l'elaborazione di una via nuova, rispetto alle esperienze storiche conosciute, ed originale, che indicano appunto come "terza via".

Il dibattito, pur vivo ed interessante, rischia di restare sterile proprio per il diverso livello su cui si collocano i due principali interlocutori e la loro incapacità a prendere in considerazione il rapporto tra "fini" e "mezzi" dell'azione, come se questi non fossero necessariamente collegati, e fini diversi non richiedessero mezzi diversi, e viceversa. E tale dibattito è stato indebolito dal fatto di non aver preso in considerazione dei contributi esterni, forse perché non provenienti da un partito di massa ma da un piccolo movimento, che già da anni ha cercato di approfondire i rapporti tra fini e mezzi ed il problema ed i metodi della transizione al socialismo [5].

Un arricchimento del dibattito, anche se non del tutto soddisfacente, è venuto anche dal recente convegno di Perugia (19-20-21 ottobre 1978) che ha avuto come tema "Nonviolenza e marxismo nella transizione al socialismo". Esso era stato organizzato per ricordare, in modo non rituale Aldo Capitini, il fondatore appunto del "Movimento Nonviolento", nel decennale della sua morte.
Tale convegno ha seguito la II marcia della Pace "Perugia-Assisi", anche questa in omaggio a Capitini (che ne aveva curato la prima edizione) ed a cui hanno partecipato circa 15.000 persone. Questa ha dimostrato che la "nonviolenza" (anche se sicuramente non tutti i partecipanti si dichiaravano tali e la base della marcia non era la nonviolenza ma la "lotta alla guerra") non è più l'ideologia di pochi, o pochissimi "spostati", ma comincia ad essere, anche nel nostro paese, un punto di riferimento di molte persone, soprattutto giovani (che erano la stragrande maggioranza dei partecipanti alla marcia).

Il convegno di Perugia ha cercato di portare avanti il dibattito iniziato qualche anno fa a Firenze e pubblicato nel volume "Marxismo e Nonviolenza". Questo secondo convegno è stato organizzato dalla "Fondazione Capitini" e dal "Movimento Nonviolento" con il patrocinio della Regione dell'Umbria, della Provincia e del Comune di Perugia, della locale Università degli Studi, e dell'Azienda Comprensoriale di Turismo. Esso si è sviluppato su quattro relazioni principali, una diecina di comunicazioni, e su un dibattito intensissimo ed accalorato. Hanno partecipato circa 400 persone, tra cui molti giovani, ed è stato seguito con attenzione, oltre che dal pubblico presente, anche da vari organi di stampa locali e nazionali. Le relazioni principali sono state: G.Pontara, "Democrazia, violenza e nonviolenza nella transizione al socialismo"; A.Minucci, "Egemonia, democrazia e pluralismo"; N.Bobbio, "Transizione e tramutazione"; I.Mancini, "Dignità dell'ideologia e mediazione tra cristianesimo e marxismo". Ha introdotto il dibattito finale G.Calogero. Hanno svolto comunicazioni, in ordine temporale, A.Drago, A.L'Abate, L.Capuccelli, L.Lombardo Radice, G.Zanga, G.Cacioppo, G.Baget Bozzo, G.Franzoni, A.Vasa, M.Soccio. Le comunicazioni e le relazioni che hanno analizzato il pensiero capitiniano sono state molte ed hanno rappresentato sicuramente il contributo piu' corposo di tutto il convegno. Oltre alla relazione di Bobbio, citata, hanno preso in esame alcuni aspetti del pensiero di Capitini, L.Capuccelli, nella sua relazione su "Capitini e la terza via" [6], G.Cacioppo su "Società civile e istituzioni", G.Zanga su "Aldo Capitini e la transizione al socialismo", M.Soccio su "Superamento del marxismo e rivoluzione nonviolenta in Capitini", L.Lombardo Radice su "Aggiunta nonviolenta alla rivoluzione socialista". A questi vanno aggiunti la relazione finale di G.Calogero, che ha ricordato a lungo la collaborazione con Capitini nella stesura del "Manifesto del Liberalsocialismo" e A.Vasa, in una comunicazione che non era nel programma originale e di cui non ricordo il titolo. Infine anche la relazione di I.Mancini, citata, nella parte finale e marginalmente prende in considerazione il pensiero capitiniano.

LA RIVOLUZIONE NONVIOLENTA QUALE "TERZA VIA"
LA TESI DEI "NONVIOLENTI"

La rivalutazione del pensiero capitiniano -e la presa di coscienza della sua viva attualità- è stata al centro del convegno (su questa rivalutazione sarà importante ritornare), ma la parte forse più attuale e significativa del convegno, e quella che ha stimolato maggiormente il dibattito tra i partecipanti, è stata quella che ha riguardato la rivoluzione nonviolenta quale "terza via" di transizione al socialismo. La proposta era già stata presentata in precedenza ed era stata al centro anche del convegno di Firenze su "Marxismo e nonviolenza". Nella presentazione di tale libro si dice infatti "Il ritardo nel pubblicare questo materiale ... non ha fatto invecchiare il dibattito qui presentato, anzi lo fa uscire proprio in un momento in cui la sinistra, avendo rimesso in discussione alcuni dei suoi assunti di base, può rimetterne in discussione anche un altro, quello cioé dell'uso della violenza e della nonviolenza nella transizione al socialismo. è questo un problema che è stato sottovalutato dalla sinistra che ha ritenuto, a torto, il problema dei metodi usati come secondario rispetto a quello della conquista del potere. Ma l'esperienza storica ha dimostrato "ad abundantiam" come le modalità con cui si arriva al potere sono una variabile fondamentale anche del come tale potere viene mantenuto e gestito e che perciò un "socialismo dal volto umano" necessita un modo di arrivare al potere diverso da quello tradizionale della rivoluzione armata, ma forse -è questo il quesito che si pone al centro del dibattito qui pubblicato- diverso anche dal semplice uso dell'arma elettorale (si pensi al fallimento dell'esperienza cilena od a quello, diverso ma per altre ragioni non meno importante, delle socialdemocrazie nordiche che hanno razionalizzato il capitalismo ma non aiutato il suo superamento). Resta perciò ancora aperto il problema di una via originale di transizione al socialismo che non si identifichi né con la tradizionale via riformista dei paesi a capitalismo avanzato (che spesso si è limitata a razionalizzare il sistema senza trasformarlo profondamente) né con quella delle rivoluzioni armate portate avanti nei Paesi del Terzo Mondo (che spesso danno vita a regimi dittatoriali e totalitari e non a quella nuova forma di società intravista da Marx, Lukacs, Gramsci, ed altri autorevoli marxisti)" [7]. queste cose venivano scritte nel 1977 (il volume è stato finito di stampare nel settembre di tale anno), molto prima dell'esplodere in Italia del dibattito sulla "terza via", ma questo non sembra aver preso in considerazione, con il dovuto riguardo, il problema dei metodi se non per un rifiuto della via rivoluzionaria (considerata come sinonimo di "armata") ed una accettazione, spesso acritica, della "democrazia" quale via principale.

Per questo il dibattito di Perugia ha permesso perlomeno di uscire da certi schemi fissi ed ha apportato alcuni elementi di novità e originalità. La tesi della nonviolenza quale terza via è stata presentata soprattutto nella relazione di G.Pontara [8] intitolata appunto "Esiste una terza via al socialismo?" e da una comunicazione di A.Drago.

Scrive Pontara nella sua relazione: "La dura lezione della storia sembra essere questa: che nella lotta per il socialismo il metodo democratico, segnatamente quello parlamentare, è insufficiente e quello violento è controproducente. Di fronte a questo dilemma il movimento socialista non si puo' piu' sottrarre al compito di riflettere a fondo sul problema dei mezzi, cioé dei metodi di lotta, da adottare. Non credo di sbagliare dicendo che esista qui una lacuna impressionante. La tendenza è sempre stata -ed è tuttora- quella di vedere due sole alternative: o il voto o il fucile. Chi ha scelto la prima è approdato alla socialdemocrazia, chi ha scelto il secondo è approdato al leninismo. Ambedue le correnti sembrano essere d'accordo che una terza via non esiste".

Nel tentativo di dimostrare l'esistenza di una terza via "rivoluzionaria nonviolenta" egli porta molti elementi di conferma delle tesi esposte:
a) sull'insufficienza del metodo parlamentare;
b) sulla controproduttività del metodo violento;
c) sulla specificità e potenzialità del metodo rivoluzionario nonviolento.

a) In rapporto al primo punto scrive Pontara: "Vi sono due argomenti fondamentali in base ai quali si puo' seriamente porre in dubbio la possibilità di realizzare la transizione al socialismo mediante l'impiego di metodi di lotta parlamentare. Il primo e piu' importante argomento concerne la possibilità della classe operaia di ottenere la maggioranza sulla base di un serio programma di socializzazione dei mezzi di produzione e di pianificazione dell'economia e di insediare un governo in grado di avviare seriamente la realizzazione di questo programma e così la transizione al socialismo. Per ottenere la maggioranza parlamentare la classe operaia deve riuscire ad agganciare vasti strati di ceto medio. Senonché, come la storia ha ampiamente dimostrato, il ceto medio è generalmente disposto ad allearsi alla classe operaia soltanto a patto che il programma di riforma non sia troppo radicale - cioé non sia socialista. Di qui il riformismo sempre più annacquato dei grandi partiti socialdemocratici, da quello tedesco a quelli scandinavi".

La seconda argomentazione riguarda invece il mantenimento del potere una volta che la classe operaia fosse riuscita ad agganciare -come possibile soprattutto in periodi di crisi- vasti strati del ceto medio intorno a un programma socialista. "Giacché, data la fluidità politica dei ceti medi -scrive ancora Pontara- non è affatto da escludere, anzi è assai probabile che, una volta superata la crisi, essi si spostino di nuovo su posizioni restauratrici e, alleandosi questa volta con la grande e media borghesia riescano a insediare democraticamente un governo che blocchi il processo di transizione o addirittura disfaccia il già fatto. Come possono i ceti operai e in genere le forze minoritarie favorevoli al socialismo in siffatti periodi di restaurazione democratica difendere le conquiste ottenute? È qui che ci si aspetterebbe -continua Pontara- almeno da parte della corrente socialdemocratica, una articolata dottrina della resistenza nonviolenta. Ma, nonostante l'inventiva dimostrata dalla classe operaia nella lotta giornaliera, il pensiero socialdemocratico non è riuscito a tutt'oggi a fornire un'articolata e sistematica dottrina della lotta nonviolenta nell'ambito delle istituzioni democratiche".

b) In rapporto all'uso del metodo violento, come già accennato, la tesi di Pontara è che esso sia controproducente. L'uso della violenza ha infatti una tendenza de-umanizzante e brutalizzante inquinando i valori del socialismo e rendendo impossibile la creazione della società e dell'uomo nuovo. E porta percio' ad un impoverimento o addirittura allo svuotamento del contenuto morale della ideologia socialista. Esso inoltre "tende ad insediare in posti sempre più importanti del movimento o della società socialista persone o gruppi autoritari. La militarizzazione della lotta che prima o poi ne consegue porta a sua volta con sé la segretezza, la soppressione delle informazioni, la difficoltà di controllo dal basso, l'indottrinamento, l'irregimentazione, il gerarchismo - tutte le cose insomma che tendono a sottrarre in misura sempre maggiore alle classi lavoratrici in lotta per il socialismo l'autogestione delle proprie lotte". Quasi come conseguenza del punto precedente ne viene una persistenza di istituzioni e organizzazioni (es. la CEKA) connesse all'uso della violenza come elementi stabili del nuovo assetto sociale.

c) Esiste una terza via? È questa la domanda vitale cui Pontara cerca di rispondere nel proseguo della sua relazione. Secondo Pontara essa esiste, non perché vi siano esempi di socialismo realizzato per questa via, ma perché vi siano esempi di socialismo realizzato per questa via, ma perché vi sono una serie di importanti esempi storici di modalità di lotta "radicale ma largamente nonviolenta" in base alle quali può essere costruita una terza via. È questa, per Pontara, quella che lui definisce la nonviolenza specifica", intendendo con questa -che contrappone o almeno distingue da quella "generica" - una modalità di lotta definita in base a un certo numero di principi connessi, a loro volta, all'accettazione di determinati valori.
Secondo Pontara tali principi sono i seguenti:

1) Il primo principio richiede che la lotta sia deliberatamente condotta con metodi tali da dare le massime garanzie che il loro impiego non causi la morte (fisica o psichica) di alcune persone contro la sua volontà, né comporti l'inflizione coatta di gravi sofferenze psichiche.

2) Il secondo principio richiede che il gruppo o movimento coinvolto in una lotta nonviolenta specifica sia disposto a sottoporsi a tutti questi sacrifici che sono necessari a far avanzare la propria causa e a ridurre al minimo (come esige il primo principio) le sofferenze che nel corso della lotta si può essere costretti a infliggere all'avversario o a terzi.

3) Il terzo principio richiede che la lotta sia impostata in modo tale da rendere possibile, in ogni fase del conflitto, la massima obiettività e imparzialità nonché il massimo controllo da parte di coloro che vi partecipano. Ciò comporta, tra l'altro, che la lotta sia aperta e non clandestina.

4) Il quarto principio richiede che la lotta sia impostata in modo tale da dare a tutti coloro che sono motivati a parteciparvi una uguale possibilità di prendervi parte. Richiede, parimente, che essa sia impostata in modo tale da coinvolgere tutti coloro che vi partecipano in un programma costruttivo volto a realizzare, fin dall'inizio di essa, nella massima misura possibile gli obiettivi per cui si lotta e teso continuamente ad individuare fini sovraordinati, cioé obiettivi la cui realizzazione è desiderata da tutte le parti in conflitto e tale che richiede certe forme di collaborazione tra di esse.

5) Il quinto e ultimo principio è quello della gradualità dei mezzi per cui tra i metodi di lotta che soddisfano i quattro precedenti principi è permesso scegliere quelli più radicali soltanto dopo che quelli più blandi si sono dimostrati chiaramente insufficienti".

Pontara continua sottolineando gli elementi positivi della nonviolenza specifica in rapporto al metodo violento. Essa infatti tende ad inibire nell'avversario quei processi psicologici e social-psicologici che presiedono all'uso della violenza o lo portano a deumanizzare il nemico; essa tende inoltre a ridurre il processo di continua "escalation" della violenza stessa. Ma, ponendosi il problema della praticabilità della nonviolenza specifica Pontara sostiene che le tesi della impraticabilità delle alternative nonviolente si basa su una concezione pessimistica dell'agire di massa secondo la quale essa si comporta sempre in modo primitivo, violento, egoistico, irrazionale. Una teoria piu' valida e piu' moderna, è invece quella che considera che "le masse non sono di per sé né buone né cattive ma possono diventare tanto l'uno quanto l'altro". Ma naturalmente la nonviolenza specifica non si puo' improvvisare e richiede un lungo lavoro di formazione. Scrive, concludendo, Pontara: "Occorre una preparazione capillare dei quadri, una continua opera di educazione e addestramento di strati sempre più vasti di popolazione e occorre - come occorrono nel caso della lotta violenta - la presenza di leaders preparati e capaci di porsi alla testa del movimento. Ma la prima condizione necessaria per promuovere la nonviolenza specifica è che la gente divenga cosciente dei rischi enormi connessi oggi con l'uso della violenza armata e finisca una buona volta di credere a tutti coloro che vanno continuamente e pigramente ripetendo la vecchia formula delle due sole alternative, o il voto o il fucile".

Ma il discorso di Pontara viene completato da una comunicazione di A.Drago, dal titolo lungo ma significativo: "Marxisti e nonviolenti di fronte al potere istituzionale e statale: confronto sulla recente storia italiana, oppure i marxisti sono per il potere dal basso e decentrato voluto dai nonviolenti?' Secondo drago un vero confronto tra marxisti e nonviolenti non si deve tanto porre su questioni astratte del tipo violenza e nonviolenza nel processo rivoluzionario, quanto sul rapporto, sin da oggi, con gli organi e le istituzioni del potere della società borghese in vista della transizione verso una società senza classi. Egli fa quindi una analisi del rapporto con le istituzioni portato avanti da Gandhi nella sua lotta per la liberazione dell'India. "La presa del potere -scrive Drago- secondo Gandhi è un processo che investe sin da ora tutto l'ambito del sociale, ma con un preciso punto di partenza: se stessi". Quattro, secondo Drago, sono le caratteristiche principali di tale presa del potere. La prima è la "ricomposizione tra lavoro manuale e intellettualà; la seconda la "realizzazione di piccole società alternative", ashrams e altre realtà di base e di collegamento con la popolazione (il movimento per la alfabetizzazione, i centri sanitari, i sindacati, ecc.); la terza la "massima semplicità tecnologica", con lo sviluppo di una tecnica controllata e gestita dalla comunità stessa (e non viceversa); la quarta la realizzazione di un vero e proprio "governo parallelo' per esprimere la raggiunta capacità di autogovernarsi da parte delle masse attraverso la disobbedienza civile di masse intere che così esprimevano la loro legge in contrasto con quella ingiusta ed estranea dei dominatori.

"Sotto questa luce -scrive Drago- la democrazia non è un gioco di innumerevoli elezioni e di colpi di maggioranza numeriche in altrettanto organi delegati; è invece lasciar sviluppare anche gli altri nel mentre pero' ci si incarna e ci si realizza con l'impegno di tutta la propria vita e ci si espande mediante la forza della convinzione; nell'azione politica dei nonviolenti la delega è il processo eccezionale, perché essi utilizzano tecniche e strutture semplificate al massimo, basando tutto sui rapporti interpersonali, creando organismi di base e decisioni il piu' possibile assembleari". Drago fa poi una analisi della storia italiana dal 1968 ad oggi per analizzare la diversa impostazione dei marxisti e dei nonviolenti verso il potere. Secondo Drago il movimento degli anni '60 ha riproposto concretamente nella realtà italiana una serie di lotte che nel complesso delineavano un progetto complessivo alternativo. Attraverso la lotta antimilitarista -i proletari in divisa- si è sottolineato la necessità di un "controllo popolare all'esercito" ed alla corsa agli armamenti; attraverso la "ricomposizione tra lavoro manuale e intellettuale" si è puntato ad un superamento di una tipica condizione della societ� capitalista: la divisione del lavoro (si pensi, ricorda Drago, alla nuova scienza operaia, alle 150 ore, ecc.); si sono sviluppati inoltre in molti settori "organismi di base che hanno riproposto il potere dal basso (assemblee studentesche, consigli di fabbrica, comitati di quartiere, comunità-terapeutiche, contro/scuola, ecc.); infine si è giunti allo sviluppo di forme di "autogestione popolare" (lotte dei terremotati del Belice, il movimento di autoriduzione delle bollette dell'Enel, ecc.).

Tutte queste lotte hanno ripetuto i punti della politica nonviolenta delineata da Gandhi ed hanno riscoperto nella prassi il "comunismo consiliare". Ma secondo Drago la politica delle forze storiche della sinistra in questi ultimi anni ha preferito canalizzare queste azioni verso "soluzioni istituzionali" che hanno accolto solo alcuni punti marginali del movimento sessantottesco annacquando le richieste del movimento con riforme o pseudoriforme (democratizzazione dell'esercito, equo-canone, ecc.) che hanno teso sostanzialmente a modernizzare e razionalizzare il sistema attuale invece che modificarlo radicalmente. Questo ha fatto si' che le forze di sinistra, che pure avevano lanciato la parola d'ordine del "nuovo modello di sviluppo", si siano trasformate di fatto in sostenitrici della ripresa del vecchio modello. Come esempio di questo Drago cita il problema della scelta dell'energia nucleare con la posizione estremamente ambigua dei partiti di sinistra -ma soprattutto il PCI- che l'anno sostanzialmente accettata, o almeno subita.

E dopo aver chiarito la diversa impostazione tra "marxismo istituzionale" (che punta solo a modificare i gestori del potere senza modificare la macchina istituzionale), ed il "marxismo consiliare" (che punta invece alla trasformazione dei rapporti di potere attraverso la creazione di contropoteri di base) Drago conclude sostenendo la possibilità di un accordo solo tra marxismo consiliare e movimento nonviolento, come è avvenuto sia nel 1968 sia nelle lotte successive (nei quartieri, nel movimento antinucleare, ecc.). "In definitiva -conclude Drago- tra marxismo stalinista, che ha la sua origine storica ed ideologica nel leninismo, e la socialdemocrazia riformista che è stata di puntello al regime borghese, noi rivendichiamo l'esistenza di una terza via che permetta una transizione alla società senza classi, che è la via nella quale possono camminare assieme sia i nonviolenti sia i marxisti consiliari".

Una terza comunicazione, sullo stesso argomento, da parte nonviolenta era la mia. Ma mi sono limitato ad integrare le due precedenti con alcune considerazioni sull'inadeguatezza delle prevalenti teorie sociologiche dei processi rivoluzionari per la comprensione dei complessi problemi di una rivoluzione in un paese di tipo neocapitalistico, considerazioni che sono restate molto marginali rispetto all'andamento del convegno stesso. Nella partefinale, comunque, ho teso a dare alcune indicazioni per un lavoro comune tra nonviolenti e marxisti che si possono così sintetizzare:

1) Una attenzione ed una lotta, non per le riforme "tout court", ma per delle riforme che provengano dal basso ed avvengano con una "crescente organizzazione di base" facendo emergere, come protagonisti, oltre alla classe operaia, nuovi attori tradizionalmente emarginati (sottoproletariato, giovani, donne, anziani, ecc.) ed impediscano sia la "corporativizzazione" delle stesse (che è il fenomeno in crescente sviluppo - si pensi alla riforma sanitaria) sia il loro essere rimangiate da "controriforme".

2) Una alleanza prioritaria tra classe operaia e i ceti più emarginati (piccoli e medi contadini, salariati agricoli, disoccupati, popolazioni delle zone rurali e del mezzogiorno, ecc.) che non escluda anche figure anche più basse del ceto medio e impiegatizio ma senza dare all'"alleanza con il ceto medio" quel ruolo centrale che attualmente ha nell'atteggiamento dei due partiti della sinistra storica.

3) Il chiarire meglio verso che tipo di società si vuole andare, senza fare esercizi a tavolino, ma prendendo nella dovuta considerazione e analizzando meglio certi aspetti del modello di sviluppo messo inmoto da vari paesi del terzo mondo, con il loro peso centrale all'agricoltura, al decentramento industriale- urbanistico e, aggiungerei - politico, alle tecnologie soffici ed intermedie, alla valorizzazione del capitale umano e non di quello finanziario, all'uso (ma questa è un'aggiunta che viene soprattutto dalla nostra esperienza di paesi sviluppati ed inquinati) di fonti energetiche pulite e rinnovabili (sole, acqua, vento, geotermia, rifiuti, ecc.).

LE RISPOSTE DEI MARXISTI E DEI SOCIALISTI [9]

A queste impostazioni e critiche di fondo al loro operato, cosa hanno risposto i marxisti e i socialisti presenti al convegno?
Malgrado i ripetuti omaggi al pensiero capitiniano ed alla nonviolenza in generale sembra esserci un muro molto spesso ed alto che impedisce loro la comprensione delle tesi dei nonviolenti. In sostanza, sulla base dei loro interventi, sembra non esserci alcuno spazio alla nonviolenza specifica. Per Basso infatti, che ha fatto al convegno due ottimi e lucidi interventi, lo spazio per tali tipi di lotte è soprattutto nei paesi a capitalismo avanzato, all'interno dei quali esse possono trovare una loro specificità e validità. Per lui però non c'è al contrario alcuno spazio per tali forme di lotta nei Paesi del Terzo Mondo, nei quali l'unica strada possibile è e resta quella armata. Per Minucci, al contrario, la situazione è rovesciata. Tali forme di lotta possono trovare spazio in paesi del terzo mondo che non sono ancora arrivati alla democrazia. Nei paesi invece a capitalismo più o meno avanzato, come il nostro, essendoci già un regime democratico e potendo risolvere i propri problemi all'interno delle procedure democratiche, non c'è bisogno di lotte nonviolente specifiche.

In sintesi, prendendo per buone tutte e due queste impostazioni, nei paesi del terzo mondo non c'è posto per forme di lotta di questo tipo perché mancano le libertà di fondo, e il livello culturale della popolazione è troppo basso, in complesso perché la situazione è "immatura". Nei paesi a capitalismo avanzato, al contrario, non ci sarebbe spazio perché la situazione è già "matura" e le popolazioni riescono a risolvere i propri problemi senza bisogno di lotte, se non quelle che vedono i vari partiti confrontarsi reciprocamente per ottenere il voto della gente. Tra il fucile e il voto, nei primi c'è posto solo per il fucile, nei secondi solo per il voto. E anche Bobbio, nella sua replica, ha sostenuto l'inesistenza di una terza via cercando di riportare la nonviolenza specifica nell'ambito della seconda, e cioé della via democratica al socialismo. Purtroppo la mancanza di tempo -si era ormai verso la fine del convegno e c'era urgenza di concludere- non gli ha permesso di chiarire meglio il suo pensiero. La mia impressione � stata quella che lui intendesse, nella democrazia, essere, o dover essere, presente anche un diritto di resistenza (non armata logicamente) che permetterebbe ad una minoranza di opporsi, anche al di fuori della legge formale, a decisioni della maggioranza che vadano contro la propria coscienza e, forse, anche contro i propri interessi. Spero che Bobbio, intervenendo di nuovo, chiarisca il proprio pensiero e dimostri come e se è possibile conciliare la democrazia (quale governo della maggioranza) con una nonviolenza specifica che cerchi di superare la democrazia stessa in quella che Capitini ha definito "onnicrazia" o "governo di tutti".

Comunque Minucci, direttore di "Rinascita" e membro autorevole del P.C.I., dopo essere stato ampliamente contestato per la sua relazione sull'egemonia e il pluralismo, ha, nella sua replica riconosciuto la sottovalutazione da parte del suo partito e della sinistra storica in genere, dell'importanza e specificità dei movimenti e delle lotte di base, accettando, almeno parzialmente, la critica sull'aver essi puntato troppo agli aspetti "istituzionali". Ed anche don G.Franzoni, il noto prete di base giunto alla militanza nel P.C.I., pur definendosi un nonviolento generico e non specifico ("è proprio il mio ripensare ai significati ed alle implicazioni del mio essere cattolico -scrive Franzoni- e del seguitare a far riferimento alla istituzione ecclesiale che mi impone la responsabilità di guardarmi dalla "purezza") anche per evitare "di mettere in circolazione programmi metodologici o elementi ideologici disincarnati e astorici", ha riconosciuto l'importanza delle forme di lotta nonviolente e di base. Scrive don Franzoni: "Egemonia della classe operaia, certo, ma nei confronti di chi? Come mai una ricerca inesistente e talvolta cedevole di alleanze con i ceti medi e la borghesia attiva e non invece con le masse degli emarginati, dei giovani, dei disoccupati? Non dico questo perché nelle strategie politiche non si debbano fare anche delle scelte realistiche -se queste pagano- ma perché se si fanno non si puo' scivolarci sopra in modo reticente per fedeltà dogmatica ad una scelta politica". "Sul tema poi della nonviolenza -continua Franzoni- quando si dice che forme di lotta come quelle messe in atto da Gandhi, o da King,o da Chavez non sono attuali in Italia, come ha detto il compagno Minucci, si elude il tema centrale di questo convegno, giacché esso studia proprio la possibilità che simili forme, adoperate in modo sistematico, resuscitino il protagonismo delle masse, rivitalizzino la nostra lotta politica oggi ridotta allo stallo, in balia di agenti oscuri che sovvertono e privano in ogni momento di significato quanto operiamo (come un avvicinarsi al polo fa impazzire gli strumenti magnetici), ci riduce a sterili e ripetitive manifestazioni di piazza o celebrazioni della Resistenza nelle quali si ripetono slogan liturgicamente recitati". E preso atto favorevolmente dell'autocritica finale di Minucci sulfatto che "il difetto dei partiti di sinistra sia stato proprio quello di non assumere l'onere di far spazio a queste realtà che pur essendo in realtà difficilmente controllabili dai partiti, proprio per la loro creatività e la loro ricchezza di componenti diverse, si potevano per� ben riconoscere negli obiettivi a medio termine e nelle grandi mete della sinistra" conclude sostenendo la necessit� di una analisi più approfondita di tali forme di lotta per "vedere se erano tutti provocazioni inutili e dannose alla strategia del compromesso storico o se potevano e dovevano essere assunte come forme di creatività e di lotta che invece i marxisti hanno ignorato solo per non conoscenza o per chiusura e sospetto verso tutto ciò che non veniva da loro".

LA POLEMICA SULLA TEORIA DELLO STATO E DEL POTERE

Ma un secondo punto del dibattito mi sembra meritevole di una sia pur breve riflessione,e cioé la teoria del potere e dello stato cui si è fatto riferimento. Anche qui, pur con mille dichiarazioni di simpatia e di interesse per le idee capitiniane del "potere di tutti" e dell'"onnicrazia", la teoria del potere e dello stato che ha aleggiato in quasi tutti gli interventi, è risultata di tipo elitario, che vede il potere come prerogativa di un vertice, sia pur eletto "democraticamente", e la gran massa della popolazione come sostanzialmente subalterna, tranne che per quell'unico diritto di scelta tra partiti diversi, che è la base delle moderne democrazie.

Hanno fatto eccezione Cacioppo e G.Baget Bozzo. Quest'ultimo, lasciando cadere il testo della comunicazione già presentato per scritto su "nonviolenza e neutralità", ha invece, in un ottimo intervento improvvisato, sostenuto anche lui la necessità di una teoria dello stato e del potere che dia maggior spazio ai movimenti e alle realtà di base -alla società civile in genere- di quelle attualmente prevalenti. C'è inoltre da dire, tra parentesi, che le posizioni presentate su questo argomento dai marxisti del PCI, quella di Minucci al convegno di Perugia, e quella di Badaloni a quello di Firenze (Badaloni ha parlato della classe operaia come "sentinella esterna della democrazia", intendendo con quest'ultimo concetto la democrazia rappresentativa "tout court', come se non si potesse difendere la democrazia rappresentativa trasformandola appunto per renderla piu' adeguata a quella "realtà di tutti" cui fa riferimento Capitini [10]) sembrano ben diverse e, per certi aspetti, decisamente in contrasto con le posizioni espresse da P.Ingrao nei suoi libri (si vedano "Masse e potere", 1977, e "Crisi e terza via", 1978 ambedue degli Editori Riuniti). Sono le tesi di Ingrao ad essere minoritarie nel PCI oppure esse sono, almeno parzialmente, in contrasto con la linea prevalente nel partito nel "momento attuale" che tende a sottolineare la sua adesione alla vita democratica ("tout court", senza mettere in discussione, se non in modo molto marginale, i suoi limiti di rappresentanza) per essere accettato tra i partiti di governo e far dimenticare, più alla svelta possibile, quello che Capuccelli ha definito come "il ritardo del pensiero politico marxista nel fare i conti con la democrazia politica e con la sua natura di portato dell'avanzata proletaria" (nota 4). Personalmente propendo per la seconda tesi, ma in tal caso sarebbe piuttosto grave aver presentato a convegni che hanno cercato di fare un discorso "scientifico" delle posizioni prevalentemente "tattiche".

La polemica al convegno e i discorsi successivi si riferiscono perciò, non tanto alle tesi di Ingrao, che richiamano in larga misura quelle di Capitini, quanto alle posizioni "ufficiali" presentate a questo e dal convegno precedente dai rappresentanti del PCI a sostanziale sostegno della "democrazia rappresentativa". In rapporto a questo problema le tesi dei nonviolenti sono state le seguenti: "[Che questo tipo di democrazia sia un notevole progresso] rispetto ai tanti governi autoritari e dittatoriali del mondo, si può concordare. Ma che essa sia sufficiente per una società moderna è molto dubbio, sia in rapporto alle proposte capitiniane, sia in rapporto alle esigenze sempre più sentite di non limitare la democrazia al campo politico ma di estenderla anche al campo sociale ed economico. Rispetto a queste esigenze è stato detto (Minucci) che l'importante è "cambiare la classe dirigente", e che i nonviolenti non avrebbero il "senso dello stato" (l'ha detto Capuccelli ritorcendo sui nonviolenti le note accuse di Bobbio ai marxisti). Se avere il senso dello stato vuol dire accettarlo così com'è, e chiedere soltanto di cambiare la classe dirigente -hanno risposto i nonviolenti- possiamo senz'altro confessare e vantarci di "esserne completamente immuni'. Infatti non ci accontentiamo di cambiare la classe dirigente ma vogliamo anche il deperimento e la distruzione di quel tipo di stato centralistico ed autoritario che, in nome di una democrazia della maggioranza, continua a far subire alle masse le decisioni del capitale internazionale e delle sue multinazionali. E riteniamo invece di dover lottare per dar vita ad uno Stato diverso, basato su reali autonomia locali, in cui il potere sia al massimo decentrato a livello locale, con una organizzazione della popolazione capillare e autogestita che permetta di resistere, o almeno ridurre al minimo, alle richieste delle multinazionali. Se i partiti marxisti e socialisti avessero anch'essi voluto questo, come spesso dichiarano, non ci sarebbero state da parte loro tutte quelle incomprensioni e resistenze verso le forme di lotta e di organizzazione di base che Drago ha denunciato nella sua comunicazione e che don Franzoni ha dovuto riconoscere. E che questo sia legato ad una loro incomprensione del rapporto tra fini e mezzi, per cui si è puntato, e si punta tutt'ora, per prima cosa ad arrivare al potere per poi, in una seconda fase (ma che nell'esperienza storca non si è mai realizzata), distruggerlo dal suo interno -senza capire che il potere non si distrugge dal suo interno, o almeno non solo da esso, ma creando in ogni lotta, in ogni azione, dei "contropoteri" che lo limitano-, non è una cosa che diciamo noi soli ma che è opinione di gruppi sempre più vasti. Se sostenere l'importanza fondamentale del rapporto tra fini e mezzi e ritenere che per dar vita ad una società decentrata, con il potere non ai vertici ma alla base, bisogna cominciare a dare importanza all'organizzazione e all'autogestione delle stesse lotte portate avanti per dar vita a questa nuova società; se tutto questo vuol dire non avere il senso dello Stato, ce ne vantiamo. E possiamo a nostra volta osservare, anche alla luce dell'esperienza mondiale: "Non vi sembra che questo senso dello Stato sia un pò antiquato e proponga null'altro, come modello insuperato e insuperabile, che il modello di Stato ottocentesco, di stampo liberale?". Se questa è la "terza via" che propone il Partito Comunista, hanno certamente ragione Bobbio e Salvadori [11] a dire che essa non esiste perché è sempre la vecchia via socialdemocratica. Ma se esiste non puo' essere che quella che proponiamo noi della "rivoluzione nonviolenta", o per usare i termini di Pontara, della "nonviolenza specifica" [12].

ALCUNE CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Molti altri spunti sono venuti dal convegno, in particolare sui rapporti tra cristianesimo e marxismo (Mancini), sulle tesi del "liberalsocialismo" (Calogero), sul nuovo modello di sviluppo (Drago, L'Abate [13]), sull'egemonia e il pluralismo (Minucci). Ma è difficile e quasi impossibile trattare di tutti i temi (forse troppi) affrontati in quei tre giorni di intense ed aperte discussioni. Rimando perciò gli interessati alla lettura degli attiche dovrebbero essere pubblicati, si spera, tra non molto.

In complesso si può dire che pur avendo affrontato molti punti di estrema attualità, un dibattito a fondo è mancato o almeno è stato carente, soprattutto su quello che era il tema centrale del convegno, e cioé l'esistenza, tra riformismo socialdemocratico e rivoluzione violenta, di una terza via quale "rivoluzione nonviolenta" o "nonviolenza specifica".

È questo dovuto alla profonda ignoranza da parte della cultura italiana, in particolare di quella marxista, verso la storia e le tesi della nonviolenza specifica, come dice Pontara, oppure alla carenza da parte dei nonviolenti di una serie di analisi dei processi istituzionali, come sostiene Capuccelli? Personalmente sono piu' d'accordo con Pontara, comunque non si puo' non riconoscere alcuni elementi di verità anche nelle tesi di Capuccelli. Resta il fatto che, malgrado due appuntamenti, nei convegni di Firenze e di Perugia, i problemi dei rapporti tra marxismo e nonviolenza e di possibili alternative alle vie tradizionali di transizione al socialismo (o il fucile o il voto) restano ancora in gran parte da sviluppare. Qualcuno al convegno di Perugia ha commentato: "Ma perché parlare di terza via al socialismo? Bisognerebbe parlare della "prima perché ancora il socialismo non si è mai visto!". E se questo fosse appunto il risultato di non aver chiarito a sufficienza il rapporto tra fini e mezzi e i condizionamenti sul tipo di società da costruire dei metodi di lotta per avvicinarsi ad essa?

Alberto L'Abate



NOTE:

[1] In realtà il dibattito sulla "terza via", innescato dalla intervista di E.Berlinguer su "Repubblica" (24 agosto 1978) si è inserito in una più ampia discussione sui rapporti tra P.C.I. e leninismo. Questa è stata invece introdotta da un polemico saggio di B.Craxi sull'"Espresso" del 27 agosto 1978 che ha dato inizio a quello che è stato definito come "litigio a sinistra". Spesso i due dibattiti sono andati insieme fino a confondersi reciprocamente. Comunque alcuni degli interventi piu' significativi sulla terza via sono stati: l'articolo di N.Bobbio, La via democratica, "Stampa", 3.9.1978, il dibattito portato avanti per tutto il mese di Settembre dall'"Avanti" (interventi di M.Salvadori, N.Bobbio, U.Cerroni, L.Colletti, e molti altri), ed il saggio di M.Salvadori (l'"Espresso", 26.XI.1978) pubblicato anche come conclusione del libro dell'"Espresso", Litigio a sinistra, a cura di P.Mieli, che ripubblica vari degli interventi sull'argomento. A cura dello stesso si veda anche: Il socialismo diviso, Laterza, Bari, 1978. Nel dibattito si è inserito con molta autorevolezza P.Ingrao, con il volume, Crisi e terza via, Ed. Riuniti, 1978. Un largo spazio per la "terza via" c'e anche nelle tesi del per il XV Congresso del P.C.I. Si veda su queste: La terza via al socialismo, dibattito tra A.Asor Rosa, P.Bufalini, C.Luporini, R.Terzi, B.Trentin, in "Rinascita", 5 gennaio 1979.

[2] U.Cerroni, Il "modello" non diventi un dogma, su "Paese sera", 14 ottobre 1978.

[3] Sulla riduttività dell'equazione si veda sia l'intervista a Lelio Basso, Ma il socialismo è un'altra cosa, "Paese sera", 1.9.1978, sia alcune pagine del libro di Ingrao. Sulla critica al leninismo si veda anche il convegno del P.S.I. su "Marxismo, Leninismo, Socialismo" (Roma 28-29-30 ottobre 1978) le cui relazioni sono state pubblicate, in sintesi, sull'"Avanti" del 29-30 ottobre e 1 novembre 1978.

[4] N.Bobbio, Quale socialismo?, Einaudi, Torino 1977

[5] Si vedano,oltre ai libri di Capitini, in particolare, Il Potere di tutti, La Nuova Italia, Firenze 1969, e Il Messaggio di Aldo Capitini, a cura di G.Cacioppo, Lacaita, Manduria 1977, il libro di G.Pontara, Se il fine giustifichi i mezzi, Il Mulino, Bologna 1977, e quello a cura del Movimento Nonviolento, Marxismo e Nonviolenza, con gli atti del convegno su questo argomento organizzato a Firenze in collaborazione con l'Istituto di Pedagogia, Editrice Lanterna, Genova 1977. Bobbio, in un suo articolo sulla "Stampa" ha lamentato che gli ultimi due libri siano passati inosservati da parte della cultura italiana con un notevole impoverimento del dibattito sulla violenza portato avanti recentemente nel nostro paese.

[6] La comunicazione è stata pubblicata, senza note e con qualche taglio, su "Rinascita" del 27 ottobre 1978.

[7] Marxismo e Nonviolenza, cit., pp.7-8.

[8] Di questo autore si veda anche l'introduzione all'antologia di scritti di Gandhi, "Teoria e pratica della nonviolenza", Einaudi, Torini 1973, da lui curata.

[9] Mentre per le parti precedenti mi sono potuto avvalere, per la stesura di questo saggio, dei testi ciclostilati delle relazioni e delle comunicazioni distribuite al convegno, cui ho fatto largo riferimento con ampie citazioni, per la parte successiva, sia per il fatto che il testo della relazione di Minucci non è stato distribuito, sia perché molti degli spunti sono emersi nel dibattito improvvisato, sono costretto ad essere più schematico e riassuntivo, rimandando agli atti per una analisi puntuale dei testi.

[10] Si vedano i due interventi di N.Badaloni in "Marxismo e Nonviolenza", cit., pp.175-182 e 247-250.

[11] Si vedano i due interventi in "Litigio a Sinistra", citato.

[12] È questo il senso del mio intervento al convegno di Perugia fatto purtroppo in ora serale quando molti dei principali interlocutori erano assenti, e pubblicato in un resoconto sul convegno apparso sul n. di novembre- dicembre 1978 di "Azione Nonviolenta".

[13] Chi fosse interessato ad approfondire questo argomento può far riferimento al mio saggio, Energia nucleare e nuovo modello di sviluppo, in Tecnologie semplici per un'energia popolare, a cura del Centro Mazziano e del Movimento Nonviolento di Verona, 1978. Utili anche: A.L'Abate, La politica dei servizi tra razionalizzazione e rinnovamento, Marsilio, Venezia 1978, e A.Detragiache, Crisi dei sistemi complessivi e nuove strategie di sviluppo, Angeli, Milano 1978.

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