NONVIOLENZA E MARXISMO NELLA TRANSIZIONE AL SOCIALISMO
di Alberto L'Abate    in "Testimonianze" gen-feb 1979 n.211 
IL DIBATTITO SULLA "TERZA VIA" 
Nel nostro paese è in corso un vivo 
dibattito sulla "terza via" al socialismo, in particolare tra socialisti e 
comunisti, che ha investito anche le tesi congressuali dei due partiti della 
sinistra storica italiana: Bobbio, Salvadori, da parte socialista, Berlinguer, 
Ingrao, da parte comunista, sono stati tra i principali attori di questo 
dibattito politico-strategico [1]. Ma come giustamente ha segnalato U.Cerroni 
tale dibattito "mette insieme senza distinzione due ordini di questioni: la 
questione del metodo politico di costruzione della nuova società socialista in 
occidente, e la questione della "figura" di questa società" [2]. E questi due livelli, mai chiariti del tutto, rischiano di trasformare questo dibattito in un 
dialogo tra sordi. Attraverso una equazione molto schematica e riduttiva [3] del 
leninismo - dittatura del proletariato - violenza e democrazia - società 
pluralista - libertà; i socialisti, discutendo sul primo di questi livelli, 
tendono a rifiutare al leninismo una legittimità nella tradizione occidentale 
nella quale non può esistere ed essere valida che la seconda di queste strade, 
che passa necessariamente dal voto e dal consenso generale ed è inquadrata in 
un governo democratico. 
Tra "leninismo" e "democrazia" non può perciò esistere una "terza via", perché l'unica strada valida è quella democratica. I 
comunisti invece, rispondendo sul secondo di questi livelli, impostano il 
discorso sul modello di società da costruire, sostenendo la necessità e la 
possibilità di una terza via o "modello" di società da costruire tra il 
socialismo cosiddetto reale, burocratico, accentratore, e privo delle libertà 
fondamentali dei Paesi dell'Est, e le socialdemocrazie occidentali, che 
mantengono le libertà ma non sono riuscite a superare le forme di produzione 
"capitalistica", come ha del resto riconosciuto lo stesso Bobbio [4], ed avviare 
una trasformazione realmente socialista della società. In complesso nel 
dibattito i socialisti hanno puntato soprattutto sui "mezzi" di tale 
trasformazione, sostenendo l'impossibilità di portare avanti in Occidente la 
via "rivoluzionaria" seguita da Lenin in Russia, e la necessità di portare 
avanti tale trasformazione all'interno dei quadri "democratici". I comunisti 
invece hanno accentrato il loro discorso sui "fini" della propria iniziativa 
politica che non sono quelli di dar vita ad una società socialdemocratica, sul 
modello delle socialdemocrazie nordiche, ma neppure ad una società analoga a 
quelle dei Paesi dell'Est. Essi cioé rivendicano come fine dell'azione propria 
(e di altri partiti comunisti europei), l'elaborazione di una via nuova, 
rispetto alle esperienze storiche conosciute, ed originale, che indicano appunto 
come "terza via". 
Il dibattito, pur vivo ed interessante, rischia di 
restare sterile proprio per il diverso livello su cui si collocano i due 
principali interlocutori e la loro incapacità a prendere in considerazione il 
rapporto tra "fini" e "mezzi" dell'azione, come se questi non fossero 
necessariamente collegati, e fini diversi non richiedessero mezzi diversi, e 
viceversa. E tale dibattito è stato indebolito dal fatto di non aver preso in 
considerazione dei contributi esterni, forse perché non provenienti da un 
partito di massa ma da un piccolo movimento, che già da anni ha cercato di 
approfondire i rapporti tra fini e mezzi ed il problema ed i metodi della 
transizione al socialismo [5]. 
Un arricchimento del dibattito, anche se 
non del tutto soddisfacente, è venuto anche dal recente convegno di Perugia 
(19-20-21 ottobre 1978) che ha avuto come tema "Nonviolenza e marxismo nella 
transizione al socialismo". Esso era stato organizzato per ricordare, in modo 
non rituale Aldo Capitini, il fondatore appunto del "Movimento Nonviolento", nel 
decennale della sua morte. 
Tale convegno ha seguito la II marcia della Pace 
"Perugia-Assisi", anche questa in omaggio a Capitini (che ne aveva curato la 
prima edizione) ed a cui hanno partecipato circa 15.000 persone. Questa ha 
dimostrato che la "nonviolenza" (anche se sicuramente non tutti i partecipanti 
si dichiaravano tali e la base della marcia non era la nonviolenza ma la "lotta 
alla guerra") non è più l'ideologia di pochi, o pochissimi "spostati", ma 
comincia ad essere, anche nel nostro paese, un punto di riferimento di molte 
persone, soprattutto giovani (che erano la stragrande maggioranza dei 
partecipanti alla marcia). 
Il convegno di Perugia ha cercato di portare 
avanti il dibattito iniziato qualche anno fa a Firenze e pubblicato nel volume 
"Marxismo e Nonviolenza". Questo secondo convegno è stato organizzato dalla 
"Fondazione Capitini" e dal "Movimento Nonviolento" con il patrocinio della 
Regione dell'Umbria, della Provincia e del Comune di Perugia, della locale 
Università degli Studi, e dell'Azienda Comprensoriale di Turismo. Esso si è 
sviluppato su quattro relazioni principali, una diecina di comunicazioni, e su 
un dibattito intensissimo ed accalorato. Hanno partecipato circa 400 persone, 
tra cui molti giovani, ed è stato seguito con attenzione, oltre che dal 
pubblico presente, anche da vari organi di stampa locali e nazionali. Le 
relazioni principali sono state: G.Pontara, "Democrazia, violenza e nonviolenza 
nella transizione al socialismo"; A.Minucci, "Egemonia, democrazia e 
pluralismo"; N.Bobbio, "Transizione e tramutazione"; I.Mancini, "Dignità 
dell'ideologia e mediazione tra cristianesimo e marxismo". Ha introdotto il 
dibattito finale G.Calogero. Hanno svolto comunicazioni, in ordine temporale, 
A.Drago, A.L'Abate, L.Capuccelli, L.Lombardo Radice, G.Zanga, G.Cacioppo, 
G.Baget Bozzo, G.Franzoni, A.Vasa, M.Soccio. Le comunicazioni e le relazioni che 
hanno analizzato il pensiero capitiniano sono state molte ed hanno rappresentato 
sicuramente il contributo piu' corposo di tutto il convegno. Oltre alla 
relazione di Bobbio, citata, hanno preso in esame alcuni aspetti del pensiero di 
Capitini, L.Capuccelli, nella sua relazione su "Capitini e la terza via" [6], 
G.Cacioppo su "Società civile e istituzioni", G.Zanga su "Aldo Capitini e la 
transizione al socialismo", M.Soccio su "Superamento del marxismo e rivoluzione 
nonviolenta in Capitini", L.Lombardo Radice su "Aggiunta nonviolenta alla 
rivoluzione socialista". A questi vanno aggiunti la relazione finale di 
G.Calogero, che ha ricordato a lungo la collaborazione con Capitini nella 
stesura del "Manifesto del Liberalsocialismo" e A.Vasa, in una comunicazione che 
non era nel programma originale e di cui non ricordo il titolo. Infine anche la 
relazione di I.Mancini, citata, nella parte finale e marginalmente prende in 
considerazione il pensiero capitiniano. 
LA RIVOLUZIONE NONVIOLENTA QUALE "TERZA VIA" 
LA TESI DEI "NONVIOLENTI" 
La rivalutazione del pensiero capitiniano -e la presa di coscienza della 
sua viva attualità- è stata al centro del convegno (su questa rivalutazione 
sarà importante ritornare), ma la parte forse più attuale e significativa del 
convegno, e quella che ha stimolato maggiormente il dibattito tra i 
partecipanti, è stata quella che ha riguardato la rivoluzione nonviolenta quale 
"terza via" di transizione al socialismo. La proposta era già stata presentata 
in precedenza ed era stata al centro anche del convegno di Firenze su "Marxismo 
e nonviolenza". Nella presentazione di tale libro si dice infatti "Il ritardo 
nel pubblicare questo materiale ... non ha fatto invecchiare il dibattito qui 
presentato, anzi lo fa uscire proprio in un momento in cui la sinistra, avendo 
rimesso in discussione alcuni dei suoi assunti di base, può rimetterne in 
discussione anche un altro, quello cioé dell'uso della violenza e della 
nonviolenza nella transizione al socialismo. è questo un problema che è stato 
sottovalutato dalla sinistra che ha ritenuto, a torto, il problema dei metodi 
usati come secondario rispetto a quello della conquista del potere. Ma 
l'esperienza storica ha dimostrato "ad abundantiam" come le modalità con cui si 
arriva al potere sono una variabile fondamentale anche del come tale potere 
viene mantenuto e gestito e che perciò un "socialismo dal volto umano" 
necessita un modo di arrivare al potere diverso da quello tradizionale della 
rivoluzione armata, ma forse -è questo il quesito che si pone al centro del 
dibattito qui pubblicato- diverso anche dal semplice uso dell'arma elettorale 
(si pensi al fallimento dell'esperienza cilena od a quello, diverso ma per altre 
ragioni non meno importante, delle socialdemocrazie nordiche che hanno 
razionalizzato il capitalismo ma non aiutato il suo superamento). Resta perciò 
ancora aperto il problema di una via originale di transizione al socialismo che 
non si identifichi né con la tradizionale via riformista dei paesi a 
capitalismo avanzato (che spesso si è limitata a razionalizzare il sistema 
senza trasformarlo profondamente) né con quella delle rivoluzioni armate 
portate avanti nei Paesi del Terzo Mondo (che spesso danno vita a regimi 
dittatoriali e totalitari e non a quella nuova forma di società intravista da 
Marx, Lukacs, Gramsci, ed altri autorevoli marxisti)" [7]. queste cose venivano 
scritte nel 1977 (il volume è stato finito di stampare nel settembre di tale 
anno), molto prima dell'esplodere in Italia del dibattito sulla "terza via", ma 
questo non sembra aver preso in considerazione, con il dovuto riguardo, il 
problema dei metodi se non per un rifiuto della via rivoluzionaria (considerata 
come sinonimo di "armata") ed una accettazione, spesso acritica, della 
"democrazia" quale via principale. 
Per questo il dibattito di Perugia ha 
permesso perlomeno di uscire da certi schemi fissi ed ha apportato alcuni 
elementi di novità e originalità. La tesi della nonviolenza quale terza via è 
stata presentata soprattutto nella relazione di G.Pontara [8] intitolata appunto 
"Esiste una terza via al socialismo?" e da una comunicazione di A.Drago. 
Scrive Pontara nella sua relazione: "La dura lezione della storia sembra 
essere questa: che nella lotta per il socialismo il metodo democratico, 
segnatamente quello parlamentare, è insufficiente e quello violento è 
controproducente. Di fronte a questo dilemma il movimento socialista non si puo' 
piu' sottrarre al compito di riflettere a fondo sul problema dei mezzi, cioé 
dei metodi di lotta, da adottare. Non credo di sbagliare dicendo che esista qui 
una lacuna impressionante. La tendenza è sempre stata -ed è tuttora- quella di 
vedere due sole alternative: o il voto o il fucile. Chi ha scelto la prima è 
approdato alla socialdemocrazia, chi ha scelto il secondo è approdato al 
leninismo. Ambedue le correnti sembrano essere d'accordo che una terza via non 
esiste". 
Nel tentativo di dimostrare l'esistenza di una terza via 
"rivoluzionaria nonviolenta" egli porta molti elementi di conferma delle tesi 
esposte: 
a) sull'insufficienza del metodo parlamentare; 
b) sulla 
controproduttività del metodo violento; 
c) sulla specificità e 
potenzialità del metodo rivoluzionario nonviolento. 
a) In rapporto al 
primo punto scrive Pontara: "Vi sono due argomenti fondamentali in base ai quali 
si puo' seriamente porre in dubbio la possibilità di realizzare la transizione 
al socialismo mediante l'impiego di metodi di lotta parlamentare. Il primo e 
piu' importante argomento concerne la possibilità della classe operaia di 
ottenere la maggioranza sulla base di un serio programma di socializzazione dei 
mezzi di produzione e di pianificazione dell'economia e di insediare un governo 
in grado di avviare seriamente la realizzazione di questo programma e così la 
transizione al socialismo. Per ottenere la maggioranza parlamentare la classe 
operaia deve riuscire ad agganciare vasti strati di ceto medio. Senonché, come 
la storia ha ampiamente dimostrato, il ceto medio è generalmente disposto ad 
allearsi alla classe operaia soltanto a patto che il programma di riforma non 
sia troppo radicale - cioé non sia socialista. Di qui il riformismo sempre più 
annacquato dei grandi partiti socialdemocratici, da quello tedesco a quelli 
scandinavi". 
La seconda argomentazione riguarda invece il mantenimento 
del potere una volta che la classe operaia fosse riuscita ad agganciare -come 
possibile soprattutto in periodi di crisi- vasti strati del ceto medio intorno a 
un programma socialista. "Giacché, data la fluidità politica dei ceti medi 
-scrive ancora Pontara- non è affatto da escludere, anzi è assai probabile 
che, una volta superata la crisi, essi si spostino di nuovo su posizioni 
restauratrici e, alleandosi questa volta con la grande e media borghesia 
riescano a insediare democraticamente un governo che blocchi il processo di 
transizione o addirittura disfaccia il già fatto. Come possono i ceti operai e 
in genere le forze minoritarie favorevoli al socialismo in siffatti periodi di 
restaurazione democratica difendere le conquiste ottenute? È qui che ci si 
aspetterebbe -continua Pontara- almeno da parte della corrente 
socialdemocratica, una articolata dottrina della resistenza nonviolenta. Ma, 
nonostante l'inventiva dimostrata dalla classe operaia nella lotta giornaliera, 
il pensiero socialdemocratico non è riuscito a tutt'oggi a fornire 
un'articolata e sistematica dottrina della lotta nonviolenta nell'ambito delle 
istituzioni democratiche". 
b) In rapporto all'uso del metodo violento, 
come già accennato, la tesi di Pontara è che esso sia controproducente. L'uso 
della violenza ha infatti una tendenza de-umanizzante e brutalizzante inquinando 
i valori del socialismo e rendendo impossibile la creazione della società e 
dell'uomo nuovo. E porta percio' ad un impoverimento o addirittura allo 
svuotamento del contenuto morale della ideologia socialista. Esso inoltre "tende 
ad insediare in posti sempre più importanti del movimento o della società 
socialista persone o gruppi autoritari. La militarizzazione della lotta che 
prima o poi ne consegue porta a sua volta con sé la segretezza, la soppressione 
delle informazioni, la difficoltà di controllo dal basso, l'indottrinamento, 
l'irregimentazione, il gerarchismo - tutte le cose insomma che tendono a 
sottrarre in misura sempre maggiore alle classi lavoratrici in lotta per il 
socialismo l'autogestione delle proprie lotte". Quasi come conseguenza del punto 
precedente ne viene una persistenza di istituzioni e organizzazioni (es. la 
CEKA) connesse all'uso della violenza come elementi stabili del nuovo assetto 
sociale. 
c) Esiste una terza via? È questa la domanda vitale cui Pontara 
cerca di rispondere nel proseguo della sua relazione. Secondo Pontara essa 
esiste, non perché vi siano esempi di socialismo realizzato per questa via, 
ma perché vi siano esempi di socialismo realizzato per questa via, ma perché 
vi sono una serie di importanti esempi storici di modalità di lotta "radicale 
ma largamente nonviolenta" in base alle quali può essere costruita una 
terza via. È questa, per Pontara, quella che lui definisce la nonviolenza specifica", 
intendendo con questa -che contrappone o almeno distingue da quella "generica" 
- una modalità di lotta definita in base a un certo numero di 
principi connessi, a loro volta, all'accettazione di determinati valori. 
Secondo Pontara tali principi sono i seguenti: 
1) Il primo principio 
richiede che la lotta sia deliberatamente condotta con metodi tali da dare le 
massime garanzie che il loro impiego non causi la morte (fisica o psichica) di 
alcune persone contro la sua volontà, né comporti l'inflizione coatta di gravi 
sofferenze psichiche. 
2) Il secondo principio richiede che il gruppo o 
movimento coinvolto in una lotta nonviolenta specifica sia disposto a sottoporsi 
a tutti questi sacrifici che sono necessari a far avanzare la propria causa e a 
ridurre al minimo (come esige il primo principio) le sofferenze che nel corso 
della lotta si può essere costretti a infliggere all'avversario o a terzi. 
3) Il terzo principio richiede che la lotta sia impostata in modo tale 
da rendere possibile, in ogni fase del conflitto, la massima obiettività e 
imparzialità nonché il massimo controllo da parte di coloro che vi 
partecipano. Ciò comporta, tra l'altro, che la lotta sia aperta e non 
clandestina. 
4) Il quarto principio richiede che la lotta sia impostata 
in modo tale da dare a tutti coloro che sono motivati a parteciparvi una uguale 
possibilità di prendervi parte. Richiede, parimente, che essa sia impostata in 
modo tale da coinvolgere tutti coloro che vi partecipano in un programma 
costruttivo volto a realizzare, fin dall'inizio di essa, nella massima misura 
possibile gli obiettivi per cui si lotta e teso continuamente ad individuare 
fini sovraordinati, cioé obiettivi la cui realizzazione è desiderata da tutte 
le parti in conflitto e tale che richiede certe forme di collaborazione tra di 
esse. 
5) Il quinto e ultimo principio è quello della gradualità dei 
mezzi per cui tra i metodi di lotta che soddisfano i quattro precedenti principi 
è permesso scegliere quelli più radicali soltanto dopo che quelli più blandi 
si sono dimostrati chiaramente insufficienti". 
Pontara continua sottolineando gli 
elementi positivi della nonviolenza specifica in rapporto al metodo violento. 
Essa infatti tende ad inibire nell'avversario quei processi psicologici e 
social-psicologici che presiedono all'uso della violenza o lo portano a 
deumanizzare il nemico; essa tende inoltre a ridurre il processo di continua "escalation" 
della violenza stessa. Ma, ponendosi il problema della praticabilità della 
nonviolenza specifica Pontara sostiene che le tesi della impraticabilità delle 
alternative nonviolente si basa su una concezione pessimistica dell'agire 
di massa secondo la quale essa si comporta sempre in modo primitivo, 
violento, egoistico, irrazionale. Una teoria piu' valida e piu' moderna, è 
invece quella che considera che "le masse non sono di per sé né buone né 
cattive ma possono diventare tanto l'uno quanto l'altro". Ma naturalmente la 
nonviolenza specifica non si puo' improvvisare e richiede un lungo lavoro 
di formazione. Scrive, concludendo, Pontara: "Occorre una preparazione capillare 
dei quadri, una continua opera di educazione e addestramento di 
strati sempre più vasti di popolazione e occorre - come occorrono 
nel caso della lotta violenta - la presenza di leaders preparati e 
capaci di porsi alla testa del movimento. Ma la prima condizione necessaria per 
promuovere la nonviolenza specifica è che la gente divenga cosciente dei rischi 
enormi connessi oggi con l'uso della violenza armata e finisca una buona volta 
di credere a tutti coloro che vanno continuamente e pigramente ripetendo la 
vecchia formula delle due sole alternative, o il voto o il fucile". 
Ma 
il discorso di Pontara viene completato da una comunicazione di A.Drago, dal 
titolo lungo ma significativo: "Marxisti e nonviolenti di fronte al potere 
istituzionale e statale: confronto sulla recente storia italiana, oppure i 
marxisti sono per il potere dal basso e decentrato voluto dai nonviolenti?' 
Secondo drago un vero confronto tra marxisti e nonviolenti non si deve tanto 
porre su questioni astratte del tipo violenza e nonviolenza nel processo 
rivoluzionario, quanto sul rapporto, sin da oggi, con gli organi e le 
istituzioni del potere della società borghese in vista della transizione verso 
una società senza classi. Egli fa quindi una analisi del rapporto con le 
istituzioni portato avanti da Gandhi nella sua lotta per la liberazione 
dell'India. "La presa del potere -scrive Drago- secondo Gandhi è un processo 
che investe sin da ora tutto l'ambito del sociale, ma con un preciso punto di 
partenza: se stessi". Quattro, secondo Drago, sono le caratteristiche principali 
di tale presa del potere. La prima è la "ricomposizione tra lavoro manuale e 
intellettualà; la seconda la "realizzazione di piccole società alternative", 
ashrams e altre realtà di base e di collegamento con la popolazione (il 
movimento per la alfabetizzazione, i centri sanitari, i sindacati, ecc.); la 
terza la "massima semplicità tecnologica", con lo sviluppo di una tecnica 
controllata e gestita dalla comunità stessa (e non viceversa); la quarta la 
realizzazione di un vero e proprio "governo parallelo' per esprimere la 
raggiunta capacità di autogovernarsi da parte delle masse attraverso la 
disobbedienza civile di masse intere che così esprimevano la loro legge in 
contrasto con quella ingiusta ed estranea dei dominatori. 
"Sotto questa 
luce -scrive Drago- la democrazia non è un gioco di innumerevoli elezioni e di 
colpi di maggioranza numeriche in altrettanto organi delegati; è invece lasciar 
sviluppare anche gli altri nel mentre pero' ci si incarna e ci si realizza con 
l'impegno di tutta la propria vita e ci si espande mediante la forza della 
convinzione; nell'azione politica dei nonviolenti la delega è il processo 
eccezionale, perché essi utilizzano tecniche e strutture semplificate al 
massimo, basando tutto sui rapporti interpersonali, creando organismi di base e 
decisioni il piu' possibile assembleari". Drago fa poi una analisi della storia 
italiana dal 1968 ad oggi per analizzare la diversa impostazione dei marxisti e 
dei nonviolenti verso il potere. Secondo Drago il movimento degli anni '60 ha 
riproposto concretamente nella realtà italiana una serie di lotte che nel 
complesso delineavano un progetto complessivo alternativo. Attraverso la lotta 
antimilitarista -i proletari in divisa- si è sottolineato la necessità di un 
"controllo popolare all'esercito" ed alla corsa agli armamenti; attraverso la 
"ricomposizione tra lavoro manuale e intellettuale" si è puntato ad un 
superamento di una tipica condizione della societ� capitalista: la divisione 
del lavoro (si pensi, ricorda Drago, alla nuova scienza operaia, alle 150 ore, 
ecc.); si sono sviluppati inoltre in molti settori "organismi di base che hanno 
riproposto il potere dal basso (assemblee studentesche, consigli di fabbrica, 
comitati di quartiere, comunità-terapeutiche, contro/scuola, ecc.); infine si 
è giunti allo sviluppo di forme di "autogestione popolare" (lotte dei 
terremotati del Belice, il movimento di autoriduzione delle bollette dell'Enel, 
ecc.). 
Tutte queste lotte hanno ripetuto i punti della politica 
nonviolenta delineata da Gandhi ed hanno riscoperto nella prassi il "comunismo 
consiliare". Ma secondo Drago la politica delle forze storiche della sinistra in 
questi ultimi anni ha preferito canalizzare queste azioni verso "soluzioni 
istituzionali" che hanno accolto solo alcuni punti marginali del movimento 
sessantottesco annacquando le richieste del movimento con riforme o 
pseudoriforme (democratizzazione dell'esercito, equo-canone, ecc.) che hanno 
teso sostanzialmente a modernizzare e razionalizzare il sistema attuale invece 
che modificarlo radicalmente. Questo ha fatto si' che le forze di sinistra, che 
pure avevano lanciato la parola d'ordine del "nuovo modello di sviluppo", si 
siano trasformate di fatto in sostenitrici della ripresa del vecchio modello. 
Come esempio di questo Drago cita il problema della scelta dell'energia nucleare 
con la posizione estremamente ambigua dei partiti di sinistra -ma soprattutto il 
PCI- che l'anno sostanzialmente accettata, o almeno subita. 
E dopo aver 
chiarito la diversa impostazione tra "marxismo istituzionale" (che punta solo a 
modificare i gestori del potere senza modificare la macchina istituzionale), ed 
il "marxismo consiliare" (che punta invece alla trasformazione dei rapporti di 
potere attraverso la creazione di contropoteri di base) Drago conclude 
sostenendo la possibilità di un accordo solo tra marxismo consiliare e 
movimento nonviolento, come è avvenuto sia nel 1968 sia nelle lotte successive 
(nei quartieri, nel movimento antinucleare, ecc.). "In definitiva -conclude 
Drago- tra marxismo stalinista, che ha la sua origine storica ed ideologica nel 
leninismo, e la socialdemocrazia riformista che è stata di puntello al regime 
borghese, noi rivendichiamo l'esistenza di una terza via che permetta una 
transizione alla società senza classi, che è la via nella quale possono 
camminare assieme sia i nonviolenti sia i marxisti consiliari". 
Una 
terza comunicazione, sullo stesso argomento, da parte nonviolenta era la mia. Ma 
mi sono limitato ad integrare le due precedenti con alcune considerazioni 
sull'inadeguatezza delle prevalenti teorie sociologiche dei processi 
rivoluzionari per la comprensione dei complessi problemi di una rivoluzione in 
un paese di tipo neocapitalistico, considerazioni che sono restate molto 
marginali rispetto all'andamento del convegno stesso. Nella partefinale, 
comunque, ho teso a dare alcune indicazioni per un lavoro comune tra nonviolenti 
e marxisti che si possono così sintetizzare: 
1) Una attenzione ed una 
lotta, non per le riforme "tout court", ma per delle riforme che provengano dal 
basso ed avvengano con una "crescente organizzazione di base" facendo emergere, 
come protagonisti, oltre alla classe operaia, nuovi attori tradizionalmente 
emarginati (sottoproletariato, giovani, donne, anziani, ecc.) ed impediscano sia 
la "corporativizzazione" delle stesse (che è il fenomeno in crescente sviluppo 
- si pensi alla riforma sanitaria) sia il loro essere rimangiate da 
"controriforme". 
2) Una alleanza prioritaria tra classe operaia e i ceti 
più emarginati (piccoli e medi contadini, salariati agricoli, disoccupati, 
popolazioni delle zone rurali e del mezzogiorno, ecc.) che non escluda anche 
figure anche più basse del ceto medio e impiegatizio ma senza dare 
all'"alleanza con il ceto medio" quel ruolo centrale che attualmente ha 
nell'atteggiamento dei due partiti della sinistra storica. 
3) Il 
chiarire meglio verso che tipo di società si vuole andare, senza fare esercizi 
a tavolino, ma prendendo nella dovuta considerazione e analizzando meglio certi 
aspetti del modello di sviluppo messo inmoto da vari paesi del terzo mondo, con 
il loro peso centrale all'agricoltura, al decentramento industriale- urbanistico 
e, aggiungerei - politico, alle tecnologie soffici ed intermedie, alla 
valorizzazione del capitale umano e non di quello finanziario, all'uso (ma 
questa è un'aggiunta che viene soprattutto dalla nostra esperienza di paesi 
sviluppati ed inquinati) di fonti energetiche pulite e rinnovabili (sole, acqua, 
vento, geotermia, rifiuti, ecc.). 
LE RISPOSTE DEI MARXISTI E DEI SOCIALISTI [9] 
A queste impostazioni e 
critiche di fondo al loro operato, cosa hanno risposto i marxisti e i socialisti 
presenti al convegno? 
Malgrado i ripetuti omaggi al pensiero capitiniano ed 
alla nonviolenza in generale sembra esserci un muro molto spesso ed alto che 
impedisce loro la comprensione delle tesi dei nonviolenti. In sostanza, sulla 
base dei loro interventi, sembra non esserci alcuno spazio alla nonviolenza 
specifica. Per Basso infatti, che ha fatto al convegno due ottimi e lucidi 
interventi, lo spazio per tali tipi di lotte è soprattutto nei paesi a 
capitalismo avanzato, all'interno dei quali esse possono trovare una loro 
specificità e validità. Per lui però non c'è al contrario alcuno spazio per 
tali forme di lotta nei Paesi del Terzo Mondo, nei quali l'unica strada 
possibile è e resta quella armata. Per Minucci, al contrario, la situazione è 
rovesciata. Tali forme di lotta possono trovare spazio in paesi del terzo mondo 
che non sono ancora arrivati alla democrazia. Nei paesi invece a capitalismo 
più o meno avanzato, come il nostro, essendoci già un regime democratico e 
potendo risolvere i propri problemi all'interno delle procedure democratiche, 
non c'è bisogno di lotte nonviolente specifiche. 
In sintesi, prendendo 
per buone tutte e due queste impostazioni, nei paesi del terzo mondo non c'è 
posto per forme di lotta di questo tipo perché mancano le libertà di fondo, e 
il livello culturale della popolazione è troppo basso, in complesso perché la 
situazione è "immatura". Nei paesi a capitalismo avanzato, al contrario, non ci 
sarebbe spazio perché la situazione è già "matura" e le popolazioni riescono 
a risolvere i propri problemi senza bisogno di lotte, se non quelle che vedono i 
vari partiti confrontarsi reciprocamente per ottenere il voto della gente. Tra 
il fucile e il voto, nei primi c'è posto solo per il fucile, nei secondi solo 
per il voto. E anche Bobbio, nella sua replica, ha sostenuto l'inesistenza di 
una terza via cercando di riportare la nonviolenza specifica nell'ambito della 
seconda, e cioé della via democratica al socialismo. Purtroppo la mancanza di 
tempo -si era ormai verso la fine del convegno e c'era urgenza di concludere- 
non gli ha permesso di chiarire meglio il suo pensiero. La mia impressione � 
stata quella che lui intendesse, nella democrazia, essere, o dover essere, 
presente anche un diritto di resistenza (non armata logicamente) che 
permetterebbe ad una minoranza di opporsi, anche al di fuori della legge 
formale, a decisioni della maggioranza che vadano contro la propria coscienza e, 
forse, anche contro i propri interessi. Spero che Bobbio, intervenendo di nuovo, 
chiarisca il proprio pensiero e dimostri come e se è possibile conciliare la 
democrazia (quale governo della maggioranza) con una nonviolenza specifica che 
cerchi di superare la democrazia stessa in quella che Capitini ha definito 
"onnicrazia" o "governo di tutti". 
Comunque Minucci, direttore di 
"Rinascita" e membro autorevole del P.C.I., dopo essere stato ampliamente 
contestato per la sua relazione sull'egemonia e il pluralismo, ha, nella sua 
replica riconosciuto la sottovalutazione da parte del suo partito e della 
sinistra storica in genere, dell'importanza e specificità dei movimenti e delle 
lotte di base, accettando, almeno parzialmente, la critica sull'aver essi 
puntato troppo agli aspetti "istituzionali". Ed anche don G.Franzoni, il noto 
prete di base giunto alla militanza nel P.C.I., pur definendosi un nonviolento 
generico e non specifico ("è proprio il mio ripensare ai significati ed alle 
implicazioni del mio essere cattolico -scrive Franzoni- e del seguitare a far 
riferimento alla istituzione ecclesiale che mi impone la responsabilità di 
guardarmi dalla "purezza") anche per evitare "di mettere in circolazione 
programmi metodologici o elementi ideologici disincarnati e astorici", ha 
riconosciuto l'importanza delle forme di lotta nonviolente e di base. Scrive don 
Franzoni: "Egemonia della classe operaia, certo, ma nei confronti di chi? Come 
mai una ricerca inesistente e talvolta cedevole di alleanze con i ceti medi e la 
borghesia attiva e non invece con le masse degli emarginati, dei giovani, dei 
disoccupati? Non dico questo perché nelle strategie politiche non si debbano 
fare anche delle scelte realistiche -se queste pagano- ma perché se si fanno 
non si puo' scivolarci sopra in modo reticente per fedeltà dogmatica ad una 
scelta politica". "Sul tema poi della nonviolenza -continua Franzoni- quando si 
dice che forme di lotta come quelle messe in atto da Gandhi, o da King,o da 
Chavez non sono attuali in Italia, come ha detto il compagno Minucci, si elude 
il tema centrale di questo convegno, giacché esso studia proprio la 
possibilità che simili forme, adoperate in modo sistematico, resuscitino il 
protagonismo delle masse, rivitalizzino la nostra lotta politica oggi ridotta 
allo stallo, in balia di agenti oscuri che sovvertono e privano in ogni momento 
di significato quanto operiamo (come un avvicinarsi al polo fa impazzire gli 
strumenti magnetici), ci riduce a sterili e ripetitive manifestazioni di piazza 
o celebrazioni della Resistenza nelle quali si ripetono slogan liturgicamente 
recitati". E preso atto favorevolmente dell'autocritica finale di Minucci 
sulfatto che "il difetto dei partiti di sinistra sia stato proprio quello di non 
assumere l'onere di far spazio a queste realtà che pur essendo in realtà 
difficilmente controllabili dai partiti, proprio per la loro creatività e la 
loro ricchezza di componenti diverse, si potevano per� ben riconoscere negli 
obiettivi a medio termine e nelle grandi mete della sinistra" conclude 
sostenendo la necessit� di una analisi più approfondita di tali forme di lotta 
per "vedere se erano tutti provocazioni inutili e dannose alla strategia del 
compromesso storico o se potevano e dovevano essere assunte come forme di 
creatività e di lotta che invece i marxisti hanno ignorato solo per non 
conoscenza o per chiusura e sospetto verso tutto ciò che non veniva da loro". 
LA POLEMICA SULLA TEORIA DELLO STATO E DEL POTERE 
Ma un secondo punto 
del dibattito mi sembra meritevole di una sia pur breve riflessione,e cioé la 
teoria del potere e dello stato cui si è fatto riferimento. Anche qui, pur con 
mille dichiarazioni di simpatia e di interesse per le idee capitiniane del 
"potere di tutti" e dell'"onnicrazia", la teoria del potere e dello stato che ha 
aleggiato in quasi tutti gli interventi, è risultata di tipo elitario, che vede 
il potere come prerogativa di un vertice, sia pur eletto "democraticamente", e 
la gran massa della popolazione come sostanzialmente subalterna, tranne che per 
quell'unico diritto di scelta tra partiti diversi, che è la base delle moderne 
democrazie. 
Hanno fatto eccezione Cacioppo e G.Baget Bozzo. 
Quest'ultimo, lasciando cadere il testo della comunicazione già presentato per 
scritto su "nonviolenza e neutralità", ha invece, in un ottimo intervento 
improvvisato, sostenuto anche lui la necessità di una teoria dello stato e del 
potere che dia maggior spazio ai movimenti e alle realtà di base -alla società 
civile in genere- di quelle attualmente prevalenti. C'è inoltre da dire, tra 
parentesi, che le posizioni presentate su questo argomento dai marxisti del PCI, 
quella di Minucci al convegno di Perugia, e quella di Badaloni a quello di 
Firenze (Badaloni ha parlato della classe operaia come "sentinella esterna della 
democrazia", intendendo con quest'ultimo concetto la democrazia rappresentativa 
"tout court', come se non si potesse difendere la democrazia rappresentativa 
trasformandola appunto per renderla piu' adeguata a quella "realtà di tutti" 
cui fa riferimento Capitini [10]) sembrano ben diverse e, per certi aspetti, 
decisamente in contrasto con le posizioni espresse da P.Ingrao nei suoi libri 
(si vedano "Masse e potere", 1977, e "Crisi e terza via", 1978 ambedue degli 
Editori Riuniti). Sono le tesi di Ingrao ad essere minoritarie nel PCI oppure 
esse sono, almeno parzialmente, in contrasto con la linea prevalente nel partito 
nel "momento attuale" che tende a sottolineare la sua adesione alla vita 
democratica ("tout court", senza mettere in discussione, se non in modo molto 
marginale, i suoi limiti di rappresentanza) per essere accettato tra i partiti 
di governo e far dimenticare, più alla svelta possibile, quello che Capuccelli 
ha definito come "il ritardo del pensiero politico marxista nel fare i conti con 
la democrazia politica e con la sua natura di portato dell'avanzata proletaria" 
(nota 4). Personalmente propendo per la seconda tesi, ma in tal caso sarebbe 
piuttosto grave aver presentato a convegni che hanno cercato di fare un discorso 
"scientifico" delle posizioni prevalentemente "tattiche". 
La polemica al 
convegno e i discorsi successivi si riferiscono perciò, non tanto alle tesi di 
Ingrao, che richiamano in larga misura quelle di Capitini, quanto alle posizioni 
"ufficiali" presentate a questo e dal convegno precedente dai rappresentanti del 
PCI a sostanziale sostegno della "democrazia rappresentativa". In rapporto a 
questo problema le tesi dei nonviolenti sono state le seguenti: "[Che questo 
tipo di democrazia sia un notevole progresso] rispetto ai tanti governi 
autoritari e dittatoriali del mondo, si può concordare. Ma che essa sia 
sufficiente per una società moderna è molto dubbio, sia in rapporto alle 
proposte capitiniane, sia in rapporto alle esigenze sempre più sentite di non 
limitare la democrazia al campo politico ma di estenderla anche al campo sociale 
ed economico. Rispetto a queste esigenze è stato detto (Minucci) che 
l'importante è "cambiare la classe dirigente", e che i nonviolenti non 
avrebbero il "senso dello stato" (l'ha detto Capuccelli ritorcendo sui 
nonviolenti le note accuse di Bobbio ai marxisti). Se avere il senso dello stato 
vuol dire accettarlo così com'è, e chiedere soltanto di cambiare la classe 
dirigente -hanno risposto i nonviolenti- possiamo senz'altro confessare e 
vantarci di "esserne completamente immuni'. Infatti non ci accontentiamo di 
cambiare la classe dirigente ma vogliamo anche il deperimento e la distruzione 
di quel tipo di stato centralistico ed autoritario che, in nome di una 
democrazia della maggioranza, continua a far subire alle masse le decisioni del 
capitale internazionale e delle sue multinazionali. E riteniamo invece di dover 
lottare per dar vita ad uno Stato diverso, basato su reali autonomia locali, in 
cui il potere sia al massimo decentrato a livello locale, con una organizzazione 
della popolazione capillare e autogestita che permetta di resistere, o almeno 
ridurre al minimo, alle richieste delle multinazionali. Se i partiti marxisti e 
socialisti avessero anch'essi voluto questo, come spesso dichiarano, non ci 
sarebbero state da parte loro tutte quelle incomprensioni e resistenze verso le 
forme di lotta e di organizzazione di base che Drago ha denunciato nella sua 
comunicazione e che don Franzoni ha dovuto riconoscere. E che questo sia legato 
ad una loro incomprensione del rapporto tra fini e mezzi, per cui si è puntato, 
e si punta tutt'ora, per prima cosa ad arrivare al potere per poi, in una 
seconda fase (ma che nell'esperienza storca non si è mai realizzata), 
distruggerlo dal suo interno -senza capire che il potere non si distrugge dal 
suo interno, o almeno non solo da esso, ma creando in ogni lotta, in ogni 
azione, dei "contropoteri" che lo limitano-, non è una cosa che diciamo noi 
soli ma che è opinione di gruppi sempre più vasti. Se sostenere l'importanza 
fondamentale del rapporto tra fini e mezzi e ritenere che per dar vita ad una 
società decentrata, con il potere non ai vertici ma alla base, bisogna 
cominciare a dare importanza all'organizzazione e all'autogestione delle stesse 
lotte portate avanti per dar vita a questa nuova società; se tutto questo vuol 
dire non avere il senso dello Stato, ce ne vantiamo. E possiamo a nostra volta 
osservare, anche alla luce dell'esperienza mondiale: "Non vi sembra che questo 
senso dello Stato sia un pò antiquato e proponga null'altro, come modello 
insuperato e insuperabile, che il modello di Stato ottocentesco, di stampo 
liberale?". Se questa è la "terza via" che propone il Partito Comunista, hanno 
certamente ragione Bobbio e Salvadori [11] a dire che essa non esiste perché è 
sempre la vecchia via socialdemocratica. Ma se esiste non puo' essere che quella 
che proponiamo noi della "rivoluzione nonviolenta", o per usare i termini di 
Pontara, della "nonviolenza specifica" [12]. 
ALCUNE CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE 
Molti altri spunti sono venuti dal 
convegno, in particolare sui rapporti tra cristianesimo e marxismo (Mancini), 
sulle tesi del "liberalsocialismo" (Calogero), sul nuovo modello di sviluppo 
(Drago, L'Abate [13]), sull'egemonia e il pluralismo (Minucci). Ma è difficile 
e quasi impossibile trattare di tutti i temi (forse troppi) affrontati in quei 
tre giorni di intense ed aperte discussioni. Rimando perciò gli interessati 
alla lettura degli attiche dovrebbero essere pubblicati, si spera, tra non 
molto. 
In complesso si può dire che pur avendo affrontato molti punti 
di estrema attualità, un dibattito a fondo è mancato o almeno è stato 
carente, soprattutto su quello che era il tema centrale del convegno, e cioé 
l'esistenza, tra riformismo socialdemocratico e rivoluzione violenta, di una 
terza via quale "rivoluzione nonviolenta" o "nonviolenza specifica". 
È questo dovuto alla profonda ignoranza da parte della cultura italiana, in 
particolare di quella marxista, verso la storia e le tesi della nonviolenza 
specifica, come dice Pontara, oppure alla carenza da parte dei nonviolenti di 
una serie di analisi dei processi istituzionali, come sostiene Capuccelli? 
Personalmente sono piu' d'accordo con Pontara, comunque non si puo' non 
riconoscere alcuni elementi di verità anche nelle tesi di Capuccelli. Resta il 
fatto che, malgrado due appuntamenti, nei convegni di Firenze e di Perugia, i 
problemi dei rapporti tra marxismo e nonviolenza e di possibili alternative alle 
vie tradizionali di transizione al socialismo (o il fucile o il voto) restano 
ancora in gran parte da sviluppare. Qualcuno al convegno di Perugia ha 
commentato: "Ma perché parlare di terza via al socialismo? Bisognerebbe parlare 
della "prima perché ancora il socialismo non si è mai visto!". E se questo 
fosse appunto il risultato di non aver chiarito a sufficienza il rapporto tra 
fini e mezzi e i condizionamenti sul tipo di società da costruire dei metodi di 
lotta per avvicinarsi ad essa? 
Alberto L'Abate 
NOTE:
[1] In realtà il dibattito sulla "terza via", innescato dalla intervista 
di E.Berlinguer su "Repubblica" (24 agosto 1978) si è inserito in una 
più ampia discussione sui rapporti tra P.C.I. e leninismo. Questa è stata invece 
introdotta da un polemico saggio di B.Craxi sull'"Espresso" del 27 agosto 1978 
che ha dato inizio a quello che è stato definito come "litigio a sinistra". 
Spesso i due dibattiti sono andati insieme fino a confondersi reciprocamente. 
Comunque alcuni degli interventi piu' significativi sulla terza via 
sono stati: l'articolo di N.Bobbio, La via democratica, "Stampa", 3.9.1978, 
il dibattito portato avanti per tutto il mese di Settembre dall'"Avanti" 
(interventi di M.Salvadori, N.Bobbio, U.Cerroni, L.Colletti, e molti altri), ed 
il saggio di M.Salvadori (l'"Espresso", 26.XI.1978) pubblicato anche come 
conclusione del libro dell'"Espresso", Litigio a sinistra, a cura di P.Mieli, 
che ripubblica vari degli interventi sull'argomento. A cura dello stesso si veda 
anche: Il socialismo diviso, Laterza, Bari, 1978. Nel dibattito si è inserito 
con molta autorevolezza P.Ingrao, con il volume, Crisi e terza via, Ed. Riuniti, 
1978. Un largo spazio per la "terza via" c'e anche nelle tesi del per il XV 
Congresso del P.C.I. Si veda su queste: La terza via al socialismo, dibattito 
tra A.Asor Rosa, P.Bufalini, C.Luporini, R.Terzi, B.Trentin, in "Rinascita", 5 
gennaio 1979. 
[2] U.Cerroni, Il "modello" non diventi un dogma, su 
"Paese sera", 14 ottobre 1978. 
[3] Sulla riduttività dell'equazione si 
veda sia l'intervista a Lelio Basso, Ma il socialismo è un'altra cosa, "Paese 
sera", 1.9.1978, sia alcune pagine del libro di Ingrao. Sulla critica al 
leninismo si veda anche il convegno del P.S.I. su "Marxismo, Leninismo, 
Socialismo" (Roma 28-29-30 ottobre 1978) le cui relazioni sono state pubblicate, 
in sintesi, sull'"Avanti" del 29-30 ottobre e 1 novembre 1978. 
[4] 
N.Bobbio, Quale socialismo?, Einaudi, Torino 1977 
[5] Si vedano,oltre ai 
libri di Capitini, in particolare, Il Potere di tutti, La Nuova Italia, Firenze 
1969, e Il Messaggio di Aldo Capitini, a cura di G.Cacioppo, Lacaita, Manduria 
1977, il libro di G.Pontara, Se il fine giustifichi i mezzi, Il Mulino, Bologna 
1977, e quello a cura del Movimento Nonviolento, Marxismo e Nonviolenza, con gli 
atti del convegno su questo argomento organizzato a Firenze in collaborazione 
con l'Istituto di Pedagogia, Editrice Lanterna, Genova 1977. Bobbio, in un suo 
articolo sulla "Stampa" ha lamentato che gli ultimi due libri siano passati 
inosservati da parte della cultura italiana con un notevole impoverimento del 
dibattito sulla violenza portato avanti recentemente nel nostro paese. 
[6] La comunicazione è stata pubblicata, senza note e con qualche 
taglio, su "Rinascita" del 27 ottobre 1978. 
[7] Marxismo e Nonviolenza, 
cit., pp.7-8. 
[8] Di questo autore si veda anche l'introduzione 
all'antologia di scritti di Gandhi, "Teoria e pratica della nonviolenza", 
Einaudi, Torini 1973, da lui curata. 
[9] Mentre per le parti precedenti 
mi sono potuto avvalere, per la stesura di questo saggio, dei testi ciclostilati 
delle relazioni e delle comunicazioni distribuite al convegno, cui ho fatto 
largo riferimento con ampie citazioni, per la parte successiva, sia per il fatto 
che il testo della relazione di Minucci non è stato distribuito, sia perché 
molti degli spunti sono emersi nel dibattito improvvisato, sono costretto ad 
essere più schematico e riassuntivo, rimandando agli atti per una analisi 
puntuale dei testi. 
[10] Si vedano i due interventi di N.Badaloni in 
"Marxismo e Nonviolenza", cit., pp.175-182 e 247-250. 
[11] Si vedano i 
due interventi in "Litigio a Sinistra", citato. 
[12] È questo il senso 
del mio intervento al convegno di Perugia fatto purtroppo in ora serale quando 
molti dei principali interlocutori erano assenti, e pubblicato in un resoconto 
sul convegno apparso sul n. di novembre- dicembre 1978 di "Azione Nonviolenta". 
[13] Chi fosse interessato ad approfondire questo argomento può far 
riferimento al mio saggio, Energia nucleare e nuovo modello di sviluppo, in 
Tecnologie semplici per un'energia popolare, a cura del Centro Mazziano e del 
Movimento Nonviolento di Verona, 1978. Utili anche: A.L'Abate, La politica dei 
servizi tra razionalizzazione e rinnovamento, Marsilio, Venezia 1978, e 
A.Detragiache, Crisi dei sistemi complessivi e nuove strategie di sviluppo, 
Angeli, Milano 1978. 
 
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