RELIGIONE E NONVIOLENZA IN ALDO CAPITINI

di DAVIDE MELODIA   16.6.1994

Difficile dire dove finisce l'ambito religioso e dove comincia quello nonviolento, tanto in Capitini quanto in Gandhi, non solo, ma è forse il caso di dire che il confine per loro non esiste proprio, perché l'uno comprende l'altro. Il problema è semmai, _quando_ la religione e la nonviolenza assumono una dimensione sociale e politica, in Gandhi prima e in Capitini poi. Ma anche questo è irrilevante ai fini della nostra indagine, che non è storico-biografica, bensì fondamentalmente psicologica. È una ricerca, la nostra, che si ripromette di stabilire quale fu, e come nasceva, la causa scatenante del "fattore politico attivo" in due anime profondamente religiose. E, per converso, perché in anime altrettanto religiose e innegabilmente sensibili alle sofferenze individuali e collettive l'azione politica nonviolenta non si realizza o, se si vuole, non si esprime.
Il Cristo e il Buddha, che erano la compassione fatta persona, che operarono tutta la vita per sollevare l'uomo dalle sue miserie, e "de facto" ispirarono, ciascuno, una _religione dell'amore_, evitarono con cura ogni coinvolgimento politico. Eppure non mancò loro l'occasione e il movente, vivendo accanto al loro popolo -l'ebraico e lo shakia- oppresso e tormentato ciascuno da una potenza maggiore.

Ed ecco invece Gandhi e Capitini e Martin Luther King e mille altri credenti più o meno noti o inquadrabili religiosamente (vedi Simone Weil e Albert Schweitzer) sentire il dovere di tradurre l'amore spirituale in amore sociale. Forse il Cristo e il Buddha, nella loro profonda intuizione, e vasta, profetica visione, puntarono in primis al "mutamento positivo dell'uomo", senza di che non c'è cambiamento sociale che tenga, alla lunga. Sapevano, loro, che fin quando l'uomo, ogni uomo, non sarà capace di rinunciare a ricchezza, potenza, gloria, successo, affetti, e perfino alla propria vita a favore di altri, ogni applicazione della dottrina più perfetta del mondo alla direzione della cosa pubblica risulta vana alla luce della vera giustizia, della vera libertà, della fraternità, del bene per tutti.

Gandhi e Capitini capivano certo tutto questo, ed altro, eppure si muovevano in direzione della trasformazione sociale, senza però cadere nell'illusione di facili successi, e senza diventare vittime di micidiali delusioni dopo drammatici insuccessi. Perché dunque perseguivano ugualmente il loro sogno, e perché dovremmo farlo noi, se la maggioranza dell'umanità non lo fa, e non lo vuole; se gli stessi credenti, confessanti le religioni dell'amore, non intendono pagare il prezzo che ciò comporta, o vi pongono dei limiti; se perfino i loro Maestri non operarono sul piano sociale direttamente? I Gandhi e i Capitini di questo mondo non hanno la missione di ricostruire l'uomo, o di annunziare un nuovo Vangelo, né di indicargli la Meta suprema, ma devono semplicemente dimostrare a se stessi e agli altri come colui/colei che è in cammino può a sua volta ridisegnare il mondo, usando lo strumento umile e straordinario della nonviolenza, che dà gambe all'amore. La forza che li spinge senza mai mollare è la fede -ed è qui che entra in gioco nuovamente l'elemento religioso, certamente più costante e capace di sacrifici che non l'elemento laico, pur se permeato di nobiltà e di purezza disinteressate.

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Limitandoci ora a Capitini, il suo rigore intellettuale e morale era così limpido ed esigente, e giustificato sul piano evangelico, da non risparmiare la coscienza di nessuno, né in campo religioso, né in quello laico. Le sue osservazioni critiche intorno al Concilio Vaticano II, o intorno alla Religione di Pio XII, sono spesso dure ma corrette e condivisibili, conoscendo il personaggio, le finalità che persegue con coerenza, e la sua indiscutibile cattolicità. Le dissertazioni capitiniane su la Teoria e le Tecniche della Nonviolenza sono così elevanti, sublimanti e coinvolgenti il lettore e lo studioso che, appena questi si rende conto di essersi staccato da terra, ha quasi paura di farvi ritorno. Perché tornare deve, e applicare alcuni dei suoi suggerimenti con cui si trova d'accordo pure lo deve, ma poi si ritrova nella sua solita pochezza e impotenza, arricchito spiritualmente certo, ma più consapevole di prima se non fa ciò che con lui ha sognato.
E allora vorremmo che Capitini fosse qui per indicarci a viva voce come si possono far coincidere ideale e realtà per realizzare la comune "rivoluzione nonviolenta".
Altri elementi dell'opera capitiniana aventi una tematica religiosa, una ricerca della verità e proiezione socio-irenica, difficilmente concepibili o coltivabili da un laico, sono di certo: Scaturiti ciascuno di tali elementi da un'unica sorgente di "pietas" spirituale, sostenuti da un profondo senso del dovere - simile al "dharma" orientale- illuminati dall'ideale di una giustizia sin qui solo conclamata, avviati su un percorso di rispetto estremo verso la libera espressione ed affermazione di qualsiasi individuo, applicando un solo strumento, mai esaltato a idolo, la _nonviolenza_.

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Su alcuni di questi elementi, per chiarezza, è giocoforza fare un minimo di approfondimento, anche se ogni singolo concetto capitiniano merita un trattato a sé.

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Ad esempio, il suo concetto di "tutti", che si ritrova come un "leit-motiv" in ciascuno dei suoi percorsi intellettuali, ha il senso intrinseco del termine ma lo travalica per la intensità che lo rende esplosivo, per la finalità che lo rende globale, per la visione che lo innalza a ponte fra vita terrena ed altra, per l'amore che ne fa un simbolo di eternità. E', in fondo, un principio esso stesso. Ed è infatti da questa parola-simbolo "tutti" che si diparte la sua utopia di _religione_aperta_ fra tutti gli uomini, "teisti e atei" sulla terra; è dal "tutti" che inizia il percorso dell'amore, che il dare del "tu" all'altro invera; è dal "tutti" che la realtà presente si infutura in una "realtà liberata" dal male per ogni creatura; dal "tutti" sboccia l'apertura al _perdono_ e a fare il _bene_; dal "tutti" il superamento dell'"egoismo individuale", di coppia, di gruppo, di setta religiosa, di verità circoscritta; dal "tutti" prende il volo una audace visione di _cosmica compresenza_ di vivi e di morti, in cui il traguardo paventato della morte si nobilita in passaggio da una esistenza finita ad una infinita, e _coinvolge_ chi era, chi è e chi sarà in uno sforzo corale di azione positiva verso un "nuovo cielo e nuova terra", cioé verso una "realtà liberata dai limiti attuali". Solo un cieco non vede in questa apertura verso l'universale la straordinaria tensione morale di un'anima profondamente religiosa che ama il _darsi_ del sacrificio spirituale più che il _dare_ del sacrificio materiale. In altre parole: la nonviolenza allo stato puro.

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Un altro concetto cardine della filosofia capitiniana è l'educazione -che non si fa ancella di settarismi o assolutismi, di discriminazioni razziali o religiose, di "pressioni, coartazioni, inculcamenti"- ma che questi combatte e neutralizza mediante l'apertura, la libertà, l'informazione corretta, il dialogo ... all'interno e fuori della scuola, con maestri liberi da condizionamenti. Insomma, una visione socio-didattica profetica e veramente ideale.

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E infine ci interessa sottolineare il suo concetto di "severita'" rispetto al dovere di chi amministra, dirige e orienta le grandi istituzioni che sono responsabili della cosa religiosa, politica, economica di un Paese e ode Mondo intero. Capitini sviluppa questa sua severità critica cogliendo l'occasione del Concilio Ecumenico Vaticano II, 1963-65, che con le sue Costituzioni, i Decreti e le Dichiarazioni Conciliari doveva, in un'ottica di apertura e di accettazione di una realtà contemporanea, intervenire in modo moderno, illuminato e rinnovato, nella sostanza e non solo nella forma, pur serbando i più alti ideali della cristianità. Alla luce della propria visione aperta e profetica della religione, e dei diritti e dei doveri dell'uomo capace di sviluppare nuovi valori, la sua immagine sui documenti del Concilio -pur limitata ad alcune tematiche a lui care come la nonviolenza, la compresenza, l'educazione, il pluralismo, l'ecumenismo, la libertà religiosa ...- non lo trova soddisfatto. Gli pare, il Concilio, un'occasione perduta sul piano di una reale _riforma religiosa_, "subito", a causa dei vecchi pesi duri a cadere quali l'autoritarismo, il verticismo, il dogmatismo, l'uniformità ideologica, il monopolio della cultura e dei valori, il paternalismo, tutti ostacoli questi allo sviluppo di un uomo libero da vincoli di ogni genere, capace di scegliere da solo, oggi, valori positivi atti a creare una _società autenticamente umana_, con istituzioni religiose e politiche di servizio.

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Cosa resta di tutto questo, che è giusto e doveroso coltivare per i suoi eredi spirituali? Sia in Italia che all'estero, con le tragedie belliche, le repressioni sociali, le rivolte, i genocidi, i suoi eredi timidi che hanno in un campo o nell'altro cercato di realizzare qualcosa, si sentono oggi terribilmente inadeguati e impotenti. Ma se la sua idea della compresenza è vera, almeno nella presenza feconda del suo pensiero tra i viventi terreni, non dobbiamo disperare. Forse noi siamo solo una generazione di transizione, atta solo a trasmettere i _semi_dei_valori_, pur se parzialmente recepiti. E' possibile che un'altra generazione, una volta compresi i nostri errori e le cause dei nostri limiti, sappiano ovviarli e raccogliere quei semi per dare frutti di pace, giustizia e libertà - nell'amore.

DAVIDE MELODIA Frino, 16 giugno 1994

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