L'AGGIUNTA NONVIOLENTA DI ALDO CAPITINI ALLA TRANSIZIONE AL SOCIALISMO

di ALBERTO L'ABATE in "Testimonianze" marzo 1989

Premessa

Nel numero precedente di questa stessa rivista ho trattato abbastanza a lungo di quello che è stato l'argomento principale del convegno di Perugia dell'ottobre 1978, e cioé della nonviolenza quale terza via tra riformismo e rivoluzione armata, di transizione al socialismo [1] .

Ma un punto fondamentale trattato in tale convegno, che ho rimandato a questo secondo saggio, è il contributo di Aldo Capitini alla messa a fuoco di quella stessa tematica. Ora che i comunismi (si veda la relazione di Capuccelli) hanno scoperto in Aldo Capitini un antesignano ed un primo sostenitore della "terza via al socialismo" da loro portata avanti, c'è il rischio che "terza via", "rivoluzione nonviolenta" e "compromesso storico" vengano considerati equivalenti. Sembra percio' importante analizzare più a fondo il contributo di Capitini a quella che potrebbe essere definita (la definizione è di Lucio Lombardo Radice) l'"aggiunta nonviolenta alla rivoluzione socialista". Farò questo sulla base delle varie relazioni che, al convegno di Perugia già citato, organizzato nel decennale della sua morte, hanno trattato del pensiero capitiniano, almeno di quelle che sono state distribuite ciclostilate ai convegnisti e che ho potuto riprendere in analisi finito il convegno stesso [2]. Quattro mi sembrano le direttrici principali su cui si sono sviluppati tali contributi.

UNA RIVALUTAZIONE DEL PENSIERO CAPITINIANO

La prima è stata quella di una generale rivalutazione del pensiero capitiniano. Bobbio ha rifiutato per Capitini l'epiteto di "utopista", di "costruttore a freddo di citta' ideali", di "visionario", ed ha parlato invece di "attualita' impressionante degli ultimi scritti di Aldo sul 'potere di tutti'", di "anticipazione di tante idee che divennero attuali dopo il '68 (che e' l'anno in cui mori')", di "lezione piu' viva che mai".

Capuccelli, a conclusione della sua comunicazione su quello che ha definito un "mite ma tenace e originalissimo intellettuale umbro", cerca di confutare due deformazioni, quella _quietista_, e quella _radicale_. "È facile sbarazzarsi della deformazione quietista -scrive Capuccelli- la sua aggiunta alla sinistra e' stata condotta, dal di fuori dell'area marxista, con un'attiva capacita' e forza critica con la consapevolezza dei limiti e delle insufficienze delle forze storiche date, con apertura e lealtà, ma anche con robusta fiducia nel valore delle sue posizioni". Ma secondo Capuccelli anche la seconda deformazione e' facilmente confutabile "il liberalsocialista Capitini non e' da annoverare tra coloro che considerano il socialismo come `una postilla sul gran libro del liberalismo', per dirla con le definitive parole di Antonio Labriola sui radicali politici, e che, vedendo nel moto proletario `la continuazione semplice del moto liberale' si presentano come impazienti e sprezzanti `antesignani e guidatori' di tale moto". "Anche il suo andare oltre la politica, che potrebbe oggi apparire a tanti così suggestivo -scrive ancora Capuccelli- lo faceva sempre ritrovare nel cuore della `polis', immerso nei problemi grandi e minuti della comunità, alleato delle forze progressiste". E sottolineando la "lezione umanitaria" di Capitini che "seppe collaborare con i comunisti e i socialisti senza che le diversità ideali divenissero occasione per discriminazioni o per steccati" conclude come "il patrimonio ideale di Capitini, pur così lontano, dal punto di vista dottrinario, dalla lettura del marxismo, possa contenere un contributo utile al movimento operaio purche' questo, abbandonando ormai ogni residuo di _sacralità_, sappia attingere l'essenziale dimensione di laicità, cioé l'apertura a posizioni diverse nella edificazione della propria egemonia".

Ed anche Lucio Lombardo Radice, nella sua comunicazione, cercando elementi di distinzione ma anche di affinità tra rivoluzionari marxisti e rivoluzionari nonviolenti conclude che "il marxista aperto, non dogmatico - cioé il marxista!- deve oggi fare sue le `tecniche della nonviolenza' che costituiscono, possiamo ben dire, parafrasando un titolo capitiniano (aggiunta religiosa all'opposizione), l'aggiunta nonviolenta alla rivoluzione socialista. Il marxista, insomma, deve riconoscere il contributo diretto alla politica che può essere dato dai rivoluzionari nonviolenti, quel contributo che Aldo Capitini caratterizzava cosi' "portare sempre al massimo gli strumenti razionali nella lotta per la liberazione degli uomini".

Ma un ulteriore elemento e dimostrazione della rivalutazione del pensiero capitiniano e' stata la piena adesione all'iniziativa da parte degli enti locali umbri, Regione, Provincia, Comune, che ha permesso la stessa realizzazione del convegno-anche se non sono mancati timori, tra gli amici di Capitini, che tale adesione condizionasse in modo negativo il convegno stesso, cosa che invece, in complesso, si può dire non sia avvenuta. E in tale quadro si inserisce anche la ristampa anastatica, da parte della Regione Umbria, della collezione completa del periodico "Il potere è di tutti", fondato e diretto da Capitini per aiutare la partecipazione politica e culturale delle popolazioni umbre, e che è stata una palestra per le idee capitiniane della "democrazia di tutti" o "onnicrazia".

In questo quadro generale di apprezzamento e rivalutazione non sono mancati comunque anche elementi critici, almeno verso alcuni aspetti del pensiero capitiniano. Mancini, ad esempio, pur riconoscendo il valore profetico della nonviolenza, ne ha contestato il valore politico in situazioni di estrema oppressione; ed anche Calogero, che ha cercato di ridurre la "nonviolenza" al principio dialogico da lui sostenuto, ha negato ad essa un "valore assoluto" al di fuori di questo.

RIVOLUZIONE RELIGIOSA E RIVOLUZIONE POLITICA

La seconda direttrice è stata quella di una rianalisi dei rapporti tra elementi religiosi ed elementi politici nel pensiero capitiniano. È su questo che Bobbio ha accentrato la sua magistrale relazione, ma anche altre comunicazioni e interventi ne hanno fatto riferimento. Per distinguere tra questi due atteggiamenti Bobbio fa una lunga premessa a carattere definitorio- introduttivo. L'atteggiamento religioso è quello che "mira al rinnovamento della societa' attraverso il rinnovamento dell'uomo", quello rivoluzionario invece mira al "rinnovamento dell'uomo attraverso il rinnovamento della società". Per Bobbio infatti "il nucleo originario del del pensiero rivoluzionario, in contrapposizione a quello religioso", sta "nella interpretazione sociale e istituzionale del male, onde non è vero che le istituzioni sono perverse perche' l'uomo è malvagio (o almeno la maggior parte degli uomini sono malvagi), ma l'uomo è malvagio (o almeno la maggior parte degli uomini è malvagia) perché le istituzioni sono perverse.". Da qui se ne deduce che per il pensiero rivoluzionario basta cambiare le istituzioni per avere l'uomo nuovo. Per Bobbio ambedue gli approcci sono in crisi, e l'uomo nuovo non è nato né per riforma religiosa interna, né per modifica dei rapporti sociali. "Tutta l'opera di Capitini -scrive Bobbio- è una tipica espressione dell'atteggiamento religioso, ed e' continuamente percorsa dalla consapevolezza della contrapposizione tra dimensione religiosa e dimensione politica". Per Capitini infatti "gli uomini migliori rendono le società migliori" e non viceversa. Una caratteristica costante del pensiero capitiniano e' percio' quella antiistituzionale. "All'istituzione come sistema chiuso, come il momento della cristallizzazione di un movimento innovatore, contrappone l'atto del fare che parte dall'uomo e va all'altro uomo". Da qui la sua "diuturna lotta contro le due massime istituzioni in cui è racchiusa la vita dell'uomo: la chiesa e lo stato". Questa negazione istituzionale di Capitini si fa sentire anche nella sua posizione verso il comunismo. Egli infatti puo' essere definito, dice Bobbio, un post-comunista. "Per Capitini infatti anche la riforma della struttura, ovvero della base economica, è una riforma istituzionale. E non è sufficiente. Bisogna compiere un passo ulteriore e questo non può essere che la riforma, o meglio il rinnovamento dell'uomo ... Se la riforma politica è monca rispetto alla riforma sociale, e' vero anche che la riforma sociale è monca rispetto alla riforma religiosa. Monca in due sensi, nel senso della estensione e nel senso della profondità". In rapporto alla estensione per Capitini infatti non si tratta di liberare questa o quella classe, questo o quel popolo, ma tutti i sofferenti, indipendentemente dal loro costituire una classe o un popolo. E in rapporto alla profondita' scrive Capitini "sta venendo su, si sta formando una concreta e consistente `aggiunta', che va piu' avanti e trasforma il socialismo- comunismo politico rivoluzionario e la religione tradizionale: nel primo sostituisce il metodo violento con un animo religioso, nella seconda sostituisce la prassi culturale-sacramentale con elementi puri e aperti ... Non si tratta di riformismo, `perche' le premesse sono le piu' estreme': tutto a tutti, e specialmente agli ultimi, `nuova terra', assoluta nonviolenza, partecipazione con il `basso'. Accanto al centralismo statale-burocratico- militare-poliziesco-funzionalistico, avente alla base il proprietarismo o il collettivismo, si svilupperà questo lavoro che porta nell'intimo una cosa sacra, la realtà di tutti".

Ed, a ulteriore conferma della impostazione capitiniana, Bobbio introduce la distinzione tra due concetti, la `transizione', quale usato prevalentemente nella terminologia marxista, e la `tramutazione', che è una tipica parola capitiniana. La `transizione' è caratterizzata principalmente da un mutamento istituzionale, è una fase intermedia appunto tra due diversi assetti istituzionali, ed è definita nel tempo. La `tramutazione' invece, in quanto prefigura una realtà completamente trasformata, è fuori dal tempo storico, non ha principio e fine definito, ma può cominciare e finire in ogni momento, più che un passaggio da una fase ad un'altra è un salto, è un uscir fuori da una dimensione per entrare in un'altra completamente diversa ("il salto dalla realtà del tutto alla realta' di tutti, dalla esperienza storica del conflitto-convivenza, che ha finora caratterizzato la comunità umana, a quella della `compresenza dei vivi e dei morti', i cui atti essenziali sono il dire tu, la festa, il coro, il camminare insieme"), essa infine non opera sulle istituzioni ma sull'uomo "conta sul rinnovamento dei rapporti tra uomo e uomo e considera le nuove istituzioni come un beneficio che verrà di conseguenza (ma non è cercato di per se stesso)".

Ed anche Zanga, nella sua comunicazione, ha sottolineato questa prevalente ispirazione religiosa del pensiero di Capitini. "La sua ispirazione -scrive Zanga-è stata, in verità, essenzialmente religiosa, sia pure d'una religiosità aperta, estranea ad ogni impasto magico-sacrale e sottratta ad ogni suggestione di potere. Tale impostazione porta il Capitini a `superare' il socialismo nell'ambito di una concezione fondata su quella ch'egli ha chiamato Realtà di tutti, comprendente i defunti, i menomati, i bambini, i vecchi, gli stessi esseri subumani". "Il senso della `totalità -scrive ancora Zanga- piu' che quello della _socialita'_, ispirò la visione di Capitini, e questa totalità non era tanto impostata sui meridiani della geografia (l'unificazione del mondo) o sui meridiani della storia (l'unificazione delle civilta') quanto su quei punti di tensione verso il dover essere che si chiamano valori, miracoli senza clamore che hanno la forza di emancipare continuamente l'uomo dai suoi limiti associandolo dal di dentro alla perenne creativita' della vita (non a caso -sia detto tra parentesi- il valore da lui piu' esaltato fu quello della nonviolenza)". E Zanga cita una frase di Capitini molto significativa: "Nella competizione con la civiltà borghese la civiltà socialista si avvantaggerà se sarà portatrice di un più alto ideale religioso, di una vita religiosa più elevata: perocché io vi dico - cosi' sta scritto nel Vangelo- che se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel Regno dei Cieli".

Ed anche Soccio, pur affrontando il pensiero capitiniano da un'altra angolazione, con un taglio più laico, per mostrare la specificità della concezione rivoluzionaria nonviolenta di Capitini, sottolinea il suo atteggiamento religioso. "Il nuovo, per Capitini, scrive Soccio, non sta in un nuovo partito o in nuovo potere o in una nuova economia. Non si tratta di conquistare il potere, l'economia perché tutto resti come prima: ma perché avvenga un cambiamento totale. La rivoluzione che vuole Capitini è più profonda: vuole mutare l'uomo, mutare la politica, mutare il concetto stesso di rivoluzione, creare strumenti di distacco dalla vecchia realtà e società, strumenti di liberazione che mentre operano sul mondo, sulla società, sullo Stato, tramutano la nostra sostanza stessa, ci fondano radicalmente in una realtà che è altra".

"Il nuovo per Capitini -scrive ancora Soccio- consiste in un nuovo orientamento della coscienza che ha come polo costante di riferimento la `realtà di tutti', il criterio della `presenza di tutti'. Capitini sposta il problema della rivoluzione dal piano politico-economico-sociale a quello religioso perché è la religione che `nei suoi momenti vitali, dice all'uomo di non accontentarsi della vita quotidiana ed ordinaria e utilitaria, in cui invece la politica affonda le sue giustificazioni'". Ma secondo Soccio, con riferimento alla relazione di Bobbio "in Capitini non c'è contrapposizione tra pensiero religioso e rivoluzionario. L'uomo religioso, come l'intende Capitini, non rinuncia al rinnovamento anzi `se ne fa una persuasione interiore'. Capitini pone come momento centrale dell'azione rivoluzionaria nel suo scaturire e nel suo svilupparsi quotidiano la `forza della coscienza'".

Ed anche Lelio Basso, in uno dei suoi ultimi interventi pubblici ha sostenuto al convegno di Perugia, in almeno parziale polemica con Bobbio, la coesistenza di questi due elementi in molti dei rivoluzionari da lui conosciuti ed incontrati in tutto il mondo [3].

RIVOLUZIONE MARXISTA E RIVOLUZIONE NONVIOLENTA

La terza direttrice è stata quella che ha analizzato il contributo specifico del pensiero capitiniano all'argomento del convegno, e cioé nonviolenza e marxismo nella transizione al socialismo. Una quarta, ma a questa collegata, è stata quella che ha analizzato invece il suo contributo in rapporto al superamento della democrazia solo formale e le sue proposte di democrazia di tutti o "onnicrazia", come egli l'ha definita.

Nella terza direttrice si colloca l'interessante comunicazione di Capuccelli, che è stato allievo di Capitini all'Università di Perugia, che ora milita nel PCI e che ne ha ricostruito la presa di posizione nel dibattito di trenta anni fa sulla terza via, al momento del Fronte Democratico Popolare. Capitini si schierò con quest'ultimo nel quale vedeva la "possibilita' di radicare nella società civile un grande processo di articolazione democratica e di mobilitazione di energie di base che, attraverso nuove espressioni istituzionali, come i consigli di gestione, i comitati della terra, le consulte popolari, i comuni e infine sindacati e partiti, trasformasse il volto dell'Italia promuovendo l'accesso delle moltitudini alla cultura e al potere, costruisse quella `nuova socialità' che egli riteneva come sua vera patria". E secondo Capitini nella costruzione di una terza via l'Italia aveva, o avrebbe potuto avere, un ruolo determinante "tra la democrazia oligarchica dei paesi capitalistici -scrive ancora Capuccelli- e la democrazia cesariana del primo paese socialista la via del popolo italiano, come veniva proposta da Capitini, richiamava indirettamente nella figura utopica della rivoluzionaria permanente, democratica e nonviolenta partecipazione delle assemblee popolari, il grande tema del socialismo in occidente ... E cioé una `terza via', una `sintesi di libertà scissa dal privilegio e di socialismo sottratto a chiusure burocratiche e statuali'".

Secondo Capitini infatti "la via del popolo italiano è di andare oltre le forme dell'Occidente e dell'Oriente, in una sintesi e in un superamento in nome di una civiltà modernissima e di esigenze superiori". Scrive Capuccelli "Egli ripropone con insistenza il disegno di una nuova qualità politica in Italia e in Europa, senza farsi bloccare dal quotidiano, enigmatico tormentoso e tremendo gioco delle forze storiche ... Capitini seppe riconoscere, anche se filtrata e depurata attraverso le categorie della sua religiosità, la realtà profonda del nostro secolo, la centralità cioé di una gigantesca e sconvolgente avanzata delle `moltitudini' ... il compito della nuova Europa deve essere quello di fare incontrare la tensione alla libertà e ai valori con le moltitudini: occorre `portare dentro la civiltà europea le moltitudini del mondo', gli europei possono, su questa strada, diventare i `compagni del mondo' ... ".

Per questo egli polemizza con quanti concepiscono la terza via come terza forza [4], una posizione moderata, autonoma ed equidistante tra le due aree prevalenti, quella filo-occidentale e quella filoorientale. Per Capitini "la terza via è ben altro da essa, è dopo le altre due vie e parte da esse".

Il fallimento del Fronte, dovuto in gran parte, per Capitini, al carattere di "alleanza puramente elettorale" dello stesso che l'aveva portato all'incapacità di prendere posizione su problemi fondamentali come ad esempio gli avvenimenti cecoslovacchi, e che gli aveva fatto trascurare il lavoro di mobilitazione di energie di base che aveva invece sviluppato nei primi periodi, non porterà però Capitini ad accettare il riformismo. Questo era sostenuto anche allora da varie correnti socialdemocratiche. Esse, dopo la vittoria democristiana, ripropongono una "collaborazione inefficace, che compromette la stessa parola di socialista". Scrive Capitini in _Italia nonviolenta_: "Si puo' essere socialisti e laici accanto a Scelba, accanto ai rappresentanti degli agrari e degli industriali? E quando viene salvaguardata la famosa `equidistanza' tra i due blocchi? ... Ma domanda ancor più grave come può un riformismo soddisfare le esigenze così profonde di rinnovare le stesse strutture, quanto ingiuste, inadeguate, vecchie, della civiltà attuale? Si tratta ben altro che di correzione di particolari: c'è tutto un mondo guasto, e bisogna riconoscerlo anzitutto per tale" (Capuccelli, nota 18). Ma secondo quest'ultimo "Il ritardo del pensiero politico marxista nel fare i conti con la democrazia politica e con la sua natura di portato della avanzata proletaria dà conto, insieme ad una insufficienza di laicità, delle difficoltà e della reciproca estraneità che spesso si è creata tra il pensiero e l'azione di Capitini e la pratica del movimento operaio umbro, che pur si muovevano su un comune terreno di rinnovamento".

Ma un ulteriore importante contributo in questa terza direttiva si è avuto nella comunicazione di M.Soccio, già citata, che cerca di chiarire la posizione di Capitini nei riguardi del marxismo. "Cosa accetta Capitini del marxismo e cosa ritiene insufficiente? -si domanda Soccio- Capitini riconosce del marxismo soprattutto la matrice escatologica, l'ecatologia sociale che porta alla `discesa del regno per inevitabilità storico-economica'. Trova che nel marxismo l'umanesimo laico ha fatto un poderoso sforzo in avanti verso la liberazione, conquistando un `massimo dinamismo pratico'. Di contro all'insufficienza dello storicismo idealistico Capitini riconosce al marxismo di aver fatto scendere `lo spirito veramente nei soggetti della storia, cioé in tutti, nella collettività concreta', di aver collocato `nel momento stesso reale storico una negazione, uno scatto in avanti, che aprisse una possibilità veramente nuova mediante una rivoluzione'". Marx non ha soltanto _rovesciato_ la dialettica hegeliana -scrive ancora Soccio- ne ha realizzata una tutta diversa. Ma ciò che a Capitini piace non è la teoria, che spesso si risolve in una sorta di automatismo e di determinismo, ma _l'istanza pratica_ rivoluzionaria che nega il _destino della schiavitù_ all'interno della vecchia società, rompe e modifica le attuali strutture sociali". Scrive infatti Capitini "l'umanesimo marxista ad una concezione che dica com'è sempre la realtà sostituisce una prassi di trasformazione radicale in una realta' sociale liberata dal male che è lo sfruttamento, la proprietà privata dei mezzi di produzione, allontanati, estraniati così ai lavoratori stessi che li bagnano col proprio sudore di salariati". "È giusto e necessario, riconosce Capitini -scrive ancora Soccio- che le forze produttive riducano al proprio modo di essere i rapporti di produzione (proprietà collettiva), trasformandosi da classe economica sfruttata in classe politica capace di conquistare il potere mediante la rivoluzione. Capitini vede il significato profondo di questa presa di potere. Con essa può mutare tutta la realtà sociale". "Non si tratta -scrive infatti Capitini- di un gruppo che va al potere, per sostituire un altro, e il resto rimane come prima. È invece la grandissima maggioranza, cioé tutti i lavoratori, che distrugge il vecchio Stato (strumento di una minoranza oppressiva e sfruttatrice) sostituendolo con una società tutta diversa, dove la libertà di ciascuno coincide perfettamente con la collettività, è la fine dell'alienazione per cui la proprietà era in mani diverse dal lavoro, e quindi la ripresa umana di ciò che all'uomo veniva tolto dalle vecchie metafisiche e autoritarismi e trascendenze, con le illusorie felicità paradisiache". Ma, dice Soccio, ci sono aspetti della teoria, atteggiamenti ed esiti storici che denunciano l'insufficienza della rivoluzione marxista. Tra queste insufficienze, l'assolutismo della sfera politico-economica che rischia di chiudersi in se stessa e negare i valori esterni. "Per Capitini infatti -scrive ancora Soccio- il socialismo è un punto di partenza e non di arrivo. Il punto di arrivo della realtà socialistica è invece `la persona, il suo sviluppo, la sua creatività, l'amore che culmina nel _tu_ che volgiamo, amando le persone, per garantirne il massimo e libero sviluppo, per accrescerne la gioia'".

Altra insufficienza va cercata, per Capitini, nel rapporto tra fini e mezzi del processo rivoluzionario della transizione al socialismo. "Quale garanzia - si chiede Aldo Capitini in _Religione Aperta_- danno i mezzi politici (cui si ricorre per la rivoluzione marxista) di stabilire un mondo nuovo, dato che essi, principalmente nella forma dello Stato, cioé della violenza organizzata repressivamente (così è definito dai marxisti stessi) appartengono proprio al vecchio mondo che si vuol superare?". "Con il ricorso a mezzi che sono del vecchio mondo (violenza, statalismo, militarismo, machiavellismo) -scrive Soccio parlando del pensiero capitiniano- non c'è rivoluzione, si resta nel vecchio mondo. Esiste una stretta connessione tra i mezzi rivoluzionari adottati e il tipo di società e di potere che seguono alla conclusione vittoriosa della rivoluzione".

Secondo Capitini, perciò, la rivoluzione marxista non raggiunge veramente il suo scopo senza l'aggiunta tramutatrice della rivoluzione nonviolenta. È vero infatti che la classe proletaria, per il suo numero, può fornire fondamentali contributi per la costruzione di una nuova unità sociale del mondo. "Ma chi ci assicura -si chiede Capitini- che questa unità sociale sia veramente pervasa di libertà e di ricerca, se la classe non è guidata e continuamente sollevata da un sacerdozio che costituisca la sua avanguardia ideale, il suo esempio? ... Bisogna passare -risponde Capitini- per la cruna dell'accettazione della nonviolenza, come mezzo di educazione e di rinnovamento". La nonviolenza può dare, secondo Capitini -scrive ancora Soccio- due tipi di contributi:
1) `un contributo come forma' che consiste nella diffusione delle tecniche della nonviolenza che tutti possono usare in qualsiasi lotta;
2) un `contributo come contenuto' che significa diffondere il valore della presenza sociale di tutti, della proprieta' di tutti.
"A coloro -aggiunge Capitini- che pur avendo simpatia per gli `ideali' della nonviolenza, se ne ritraggono, perche' li vedono inattuabili in una società come l'attuale, noi possiamo dire che non si tratta di avere già in mano il potere di governo di una società, o di tendere anzitutto a conquistarlo, ma di dare _contributi_puri_nonviolenti come aggiunta o come opposizione: questo è da fare se si ritiene importante che tali contributi siano dati da qualcuno. Noi non sappiamo quanto tempo dovremo stare all'opposizione o a dare aggiunte di nonviolenza, con amore, alla società di tutti, restando il potere in mano ad altri. Non si tratta di sapere se questo periodo di passaggio durerà un millennio o pochi anni o pochi mesi: l'importante è che il futuro è già cominciato". "Si tratta di una ipotesi di ricerca e di lavoro -scrive Soccio-che, secondo Capitini, non va rifiutata con la facile accusa di `utopia', perché le `utopie' si realizzano anche talvolta, e sempre servono come fine ideale verso cui progredire".

L'ONNICRAZIA E L'ATTIVITÀ DEI COS

Scrive Cacioppo, che ha curato il volume antologico `Il messaggio di Aldo Capitini' (Lacaita, Manduria 1977) nella sua comunicazione al convegno: "La società civile, ampiamente rivalutata negli studi storici contemporanei, non lo sembra altrettanto sul piano della teoria e della pratica politica -della storia in atto- dove le impostazioni di gran lunga prevalenti restano quelle di tipo istituzionale. Permane cioé la concezione che una società sia in definitiva costituita e rappresentata integralmente da un ristretto numero di vertici delle istituzioni o degli apparati di potere, il controllo o la sovversione dei quali basterebbe quindi a garantire il controllo o la sovversione della società nel suo insieme.

Da ciò l'immagine di una vita politica imperniata su quei vertici e sugli uomini che li occupano o che si propongono di occuparli, di un potere concentrato in poche mani e che si esercita per via discendente sulla società nel suo insieme. Da qui la scarsa attenzione non solo per le forme aggregative spontanee dei cittadini ma anche per le stesse forme istituzionali di base -dai consigli scolastici a quelli di quartiere- che trovano perciò grosse difficoltà a divenire significative, incidenti sulla realtà, costitutive di un fondamentale tessuto di vita democratica del paese. Sembra che le forze della conservazione e quelle del cambiamento sostanzialmente convergano nel ritenere che la dialettica politica debba fondamentalmente svolgersi nell'ambito delle macroistituzioni e per il controllo delle stesse, non nell'esistenza quotidiana e all'interno della società civile".

In definitiva, sostiene Cacioppo, la società civile non si identifica con i vertici istituzionali e non basta il cambiamento di questi per cambiare anche quella, e rifacendosi alla concezione dell'onnicrazia capitiniana sostiene "l'esigenza di una sintesi necessaria tra democrazia e socialismo che trovi concretezza nella pratica del potere di tutti. Pensiamo quindi -scrive ancora Cacioppo- ad un tessuto sociale in cui l'esercizio del potere sia ampliamente decentrato e partecipato, lungo linee orizzontali piuttosto che verticali, col massimo di adesione da parte di ognuno e col minimo di costrizione". E come mezzo per avvicinarsi a tale obiettivo egli ricorda il lavoro concreto di Capitini nell'organizzazione dei Centri di Coordinamento Sociale (C.O.S.), a cui ugualmente si richiamano, con accenti molto positivi, sia Bobbio, che Zanga, che Soccio. Scrive Bobbio "Capitini era un visionario? Se per visionario si intende uno che ha una sua visione della società e della storia che va al di là di ciò che è immediatamente realizzabile, si può dire di sì. Ma se si intende un costruttore a freddo di città ideali, un utopista, direi di no. Non bisogna dimenticare quali siano stati i suoi sforzi all'indomani della liberazione per suscitare, promuovere e anche organizzare ... la partecipazione dal basso attraverso i centri di orientamento sociale. Soprattutto bisogna aver presenti gli ultimi scritti, che uscirono postumi, sul `potere di tutti'. Per far capire la novità della sua azione e del suo pensiero aveva coniato persino una parola nuova `onnicrazia', che contrapponeva a `democrazia'. Questi scritti ultimi sono di una attualità impressionante. Parlava di `potere di tutti', di `onnicrazia', ma intendeva ciò che oggi si chiama `democrazia diretta' distinta dalla democrazia rappresentativa. Contrapponeva la democrazia diretta alla democrazia rappresentativa, ma non credeva che la prima potesse sostituire completamente la seconda. Diceva: "Considero utile il Parlamento, ma mi preme dire che esso ha bisogno di essere integrato da moltissimi centri sociali, assemblee deliberanti e consultive in tutta la periferia". Capisce l'importanza dell'assemblea e scrive "L'assemblea è sempre un fatto commovente per chi è aperto alla compresenza. Essa è qualcosa di più della somma dei presenti, è sempre una unità che cerca se stessa, come un astro staccato da una galassia che intraprenda a ruotare in orbita, ma in modo molto più difficile". Si rende conto che l'assemblea è spesso inferiore all'idea, ma tuttavia, aggiunge "ha il grande pregio di mostrare che potrebbe elevarsi ad essere com'è l'idea, soprattutto quando praticasse la perfetta umiltà riguardo la compresenza, nel continuo vagliare il proprio potere ai criteri dei valori e della realtà di tutti". Sa che non è infallibile (contrariamente all'assolutista Rousseau per il quale la volontà generale non può sbagliare), ma osserva accortamente che "il concreto atteggiamento è di starci dentro per mostrarle i suoi sbagli; e purtroppo l'insufficienza umana si vede in questo evitare di farsi presente in un'assemblea con il proprio dissenso costruttivo".

E scrive Zanga: "Cos'erano i C.O.S.? Erano assemblee che si tenevano due giorni la settimana; in una venivano trattati problemi amministrativi: prezzi, disoccupazione, piani regolatori, trasporti, colonie estive e solari, ecc.; nell'altro venivano trattati problemi religiosi e culturali. Persone di ogni ceto e di ogni età potevano parteciparvi e porre alle autorità presenti in sala domande anche imbarazzanti. Non per nulla i C.O.S. vennero via via disertati da tali autorità (prefetti, sindaci, questori, segretari di grossi partiti) e boicottati fino alla loro sparizione".

Ed anche Cacioppo ricorda le ragioni del nascere di questa attività di Capitini e si pone il problema del suo fallimento "Perché il fascismo fosse realmente battuto e superato, perchè si potesse instaurare un'autentica società democratica, occorreva rimuovere subito le macerie del regime ed avviare una pratica di vita democratica coinvolgente, di massa, che costituisse un'antitesi radicale al modello di vita fascista. Sappiamo come la vita dei C.O.S. sia stata breve e travagliata, come essi non siano stati praticamente sostenuti da chi pure ideologicamente avrebbe dovuto, e bisognerà pur fare qualche volta una chiara analisi delle responsabilità e delle incomprensioni delle forze democratico-progressiste nei confronti di esperienze di tale significatività e tensione che, se avessero potuto mettere radici in profondità, avrebbero inciso in maniera non marginale sull'organizzazione della società post-fascista".

E scrive ancora Cacioppo, parlando sempre dei C.O.S.: "E' uno dei pochi seri tentativi di superare la contrapposizione tra cultura di elite e cultura di massa, di garantire alle masse il possesso di quanto serva a meglio capire il mondo in cui si vive ed a meglio operare in esso; contrapposizione, sappiamo, tuttora saldamente esistente nella nostra societa' e cui neppure l'ampio estendersi della scolarizzazione à riuscito a dare sufficiente risposta". Ed ancora "il C.O.S. ha dunque le sue radici nella societa' esistente, nei suoi problemi e nei suoi modi di vita, ma si muove in una chiara prospettiva di uomo e società nuovi e cerca anzi di vivere la novità gia' al suo interno, nell'apertura senza dogmi del discorso, nel rapporto anche dialettico ma non conflittuale tra le persone. L'assemblea e' nel C.O.S. il luogo della comunicazione, della ricerca, dell'approfondimento, non come di solito la viviamo nella nostra esperienza, luogo della sopraffazione, dello slogan, della tattica. Un luogo pedagogico, dunque, in certo modo. Ma non certo di una pedagogia dell'indottrinamento e della dipendenza dell'alunno dal docente, dell'ignorante dal sapiente, bensì di una pedagogia di una ricerca collaborativa, dello scambio di informazioni, del confronto tra punti di vista".

Ed infine Soccio, a conclusione della sua comunicazione, riporta quelle che per Capitini erano le attività fondamentali per mandare avanti un processo rivoluzionario nonviolento nel nostro paese. Queste sono:
a) diffondere le tecniche nonviolente da applicare a tutte le lotte politiche e sindacali;
b) opporsi alla preparazione e all'esecuzione della guerra ;
c) far convergere sul piano rivoluzionario nonviolento lavoratori e studenti;
d) costituire i C.O.S.;
e) promuovere consulte rionali e di villaggio elette da tutti i cittadini, per il controllo delle amministrazioni locali;
f) organizzare _consigli_operai_ nelle fabbriche e _contadini_ nelle campagne `eletti da tutti, indipendentemente dalle organizzazioni politiche e sindacali, con il compito di seguire i problemi delle singole aziende e di portare tutti i lavoratori al possesso delle tecniche di controllo sulla produzione e sulla pianificazione democratica, da utilizzare nella lotta per la società socialista';
g) impostare una autentica _riforma_della_scuola;
h) sollecitare gli enti pubblici a fondare _giornali_ quotidiani e settimanali che garantiscano la più assoluta obiettività d'informazione;
i) promuovere la costituzione di _centri _cooperativi_culturali_dal_basso_per_l'educazione_degli_adulti.
Questi centri hanno lo scopo di sottrarli alle manipolazioni autoritarie o di parte.

Come si vede l'azione culturale e l'organizzazione di base, dal basso, sono per Capitini tra gli strumenti fondamentali di una "rivoluzione nonviolenta". Alcune delle indicazioni capitiniane hanno trovato una sia pur parziale ed imperfetta applicazione, ma la maggior parte di esse restano ancora come indicazioni di un programma ancora da sviluppare.

QUALCHE CONSIDERAZIONE E INTERROGATIVO CONCLUSIVI

Il portare avanti un programma di questo genere, centrato su un processo di rivoluzione nonviolenta nel nostro paese, presuppone sicuramente una nuova rivoluzione culturale, del tipo di quella sessantottesca. Ma il cosiddetto riflusso, in cui saremmo ora immersi secondo tanti studiosi, non potrebbe essere appunto il risultato della delusione seguita all'abbandono, se mai sono riusciti a farli propri, da parte delle forze storiche della sinistra proprio dei valori sessantotteschi, anticipati in modo così valido da Aldo Capitini, e dal sempre maggiore allontanamento di quella "rivoluzione socialista" rimpiazzata, alla meglio, da una politica riformista sempre più annacquata?

Ricordando quello che Aldo Capitini scriveva circa 30 anni fa, possiamo anche noi porci la domanda: "Come può un riformismo soddisfare le esigenze così profonde di rinnovare le stesse strutture, quanto ingiuste, inadeguate, vecchie della civiltà attuale? Si tratta ben altro che di correzione di particolari, c'è tutto un mondo guasto, e bisogna riconoscerlo anzitutto come tale". [5]

E, sempre con Capitini, ci possiamo chiedere ancora come sia possibile fare questa profonda trasformazione proprio con i rappresentanti delle forze politiche e sociali legate al capitale nostrano e internazionale che hanno gestito, con tanti guasti e furti a non finire, il nostro paese in tutti questi anni.

La violenza in cui il nostro paese è sempre più sommerso (almeno quella parte di essa proveniente da sinistra) non può essere vista come l'effetto dell'attuale mancanza di prospettive e della delusione di tanti giovani sulle possibilità di profonde trasformazioni della nostra società, man mano che venivano alla luce le pecche di un riformismo che diveniva, ogni giorno di più, a causa del ruolo predominante al suo interno dei ceti medi [6], sempre più corporativo e sempre meno innovativo?

L'ombra di Lampedusa, del "cambiare tutto per non cambiare niente", diviene ogni giorno sempre più minacciosa e grava pesantemente su tutta la politica di riforme in atto o in fieri nel nostro paese.

Tra questo tipo di trasformismo, a breve respiro, e la rivoluzione proletaria armata di cui si fanno portavoce tanti sedicenti gruppi rivoluzionari (tra cui le B.R.), e che rischia in modo molto contraddittorio di portarci indietro verso soluzioni neoatoritarie e di destra, non c'è proprio spazio per quella "aggiunta nonviolenta alla rivoluzione socialista" di ispirazione capitiniana? Una rivoluzione, cioe', che oltre all'arma del voto, che resta uno strumento fondamentale, ma non esclusivo, della lotta nonviolenta, metta in pratica anche le altre armi: la noncollaborazione, la disobbedienza civile, il governo parallelo, lo sciopero, la costruzione dal basso di esperienze alternative, e tutte le altre necessarie, a secondo delle occasioni, e sperimentate già con notevoli successi, quando sono riuscite a diventare di massa [7]. Una rivoluzione che unisca i ceti più emarginati (i disoccupati, i senza casa, i giovani, le donne, i contadini poveri, il sottoproletariato in genere, ecc.) alla classe operaia tradizionale per lottare contro l'attuale modello di sviluppo (non ci si può dimenticare che uno dei volani non secondari della nostra attuale economia è la costruzione e la vendita di armi di tutti i tipi ai Paesi del terzo mondo) e per la ricerca, e la messa in moto, di un modello di sviluppo più giusto, più umano, più decentrato e autogestito, basato sul lavoro dell'uomo e non sul capitale, sulle energie soffici, pulite e rinnovabili (sole, acqua, vento, geotermia, riciclaggio rifiuti, ecc.), e non sull'energia nucleare che rischia di portarci verso il "tecno-fascismo" (anche se tinto di rosso) di cui parla A. Gorz nel suo ultimo libro [8], e non verso quella "civiltà conviviale" di cui parla invece Illich [9]. l

"E' distruttore-creatore -scrive Gramsci nei suoi `Quaderni del carcere' (6,30)- chi distrugge il vecchio per mettere alla luce, far affiorare il nuovo che è divenuto `necessario' ed urge implacabilmente al limitare della storia. Perciò si può dire che si distrugge in quanto si crea". E quando mai, prima di adesso, è stato _necessario_ far questo salto per muoversi con coraggio verso una società realmente e alternativa? Nella lotta e nel lavoro per dare alla luce questa società l'insegnamento di Aldo Capitini, come pure quello di un altro grande nonviolento italiano, don Lorenzo Milani, ci possono essere di grande aiuto e incitamento. Perché non avere il "coraggio dell'utopia", di una utopia che non sia evasione ma lotta costante e diurna (nonviolenta) per una società alternativa? "Bisogna essere realisti -scrive H.Lefebvre [10] riferendosi a coloro che considerano il guardare al domani come una fuga da realismo dell'oggi- ma accade qualche volta che il domani diventi l'oggi e il realismo si manifesti non come realismo ma come incapacità di previsione". E se gli utopisti nonviolenti fossero più "realisti" dei sostenitori della "Realpolitik"?

Possiamo perciò concludere facendo nostre le raccomandazioni di R.Dumont [11] "la riduzione delle ingiustizie sociali che non cessano di aumentare, e che si stanno addirittura accentuando negli ultimi anni, soprattutto a livello internazionale, è diventata _l'imperativo categorico_ dei nostri tempi ... I _realisti_, o almeno i migliori tra di loro, ci mostrano che il `loro' mondo sta andando inevitabilmente verso la catastrofe. Passano dunque la parola agli _utopisti_, che sono convocati alla barra del tribunale, e sono in qualche maniera costretti a ricercare le basi di tipi differenti di _società più ugualitarie e che ci permettano di sopravvivere sia pur di un realismo diverso che guarda al domani senza dimenticare i problemi dell'oggi"

Alberto L'Abate

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NOTE:

[1] A.L'Abate, Nonviolenza e marxismo nella transizione al socialismo, in "Testimonianze",211, gennaio-febbraio 1979.
[2] Le relazioni cui farò riferimento sono: N.Bobbio, Transizione e tramutazione; G.Cacioppo, società civile e istituzioni; L.Capuccelli, Capitini e la terza via; Lucio Lombardo Radice, Aggiunta nonviolenta alla rivoluzione socialista; M.Soccio, Superamento del marxismo e rivoluzione nonviolenta in Capitini; G.Zanga, Aldo Capitini e la transizione al socialismo; oltre a, ma marginalmente, I.Mancini, Dignità dell'ideologia e mediazione tra cristianesimo e marxismo, e G.Calogero, introduzione al dibattito conclusivo al convegno.
[3] Cfr.A. Dall'Oglio, Nota sulla questione dell'"uomo nuovo", in "Il futuro dell'uomo", n.4, autunno 1978.
[4] E' abbastanza interessante notare che anche attualmente il dibattito sulla `terza via' tende a trasformarsi in una discussione sulla `terza forza'. Si vedano gli articoli di G.Spadolini, Terza via e terza forza, "Stampa", del 12- 9-78, e quello di N.Bobbio, Vita difficile della terza forza, "Stampa", del 2- 1-1979.
[5] "Italia Nonviolenta", Libreria Internazionale d'Avanguardia, 1949, pp. 99- 103. Vedi anche Capuccelli, nota 18.
[6] Sul ruolo dei ceti medi nell'annacquamento delle riforme e la lor trasformazione in riforme "corporative" si veda il bel libro di E.Gorrieri, La giungla retributiva, Il Mulino, Bologna, 1973, Va ediz. in particolare gli ultimi due capitoli. Si veda anche la relazione di G.Pontara citata nel mio saggio , Nonviolenza e marxismo ..., nel numero precedente di "Testimonianze".
[7] Sulle armi della nonviolenza si veda la relazione di G.Pontara, Esiste la terza via al socialismo?, relazione al convegno di Perugia, citato anche nella nota precedente. Sulle tecniche e le armi della nonviolenza si veda anche il bel libretto di Aldo Capitini , le tecniche della nonviolenza, Libreria Feltrinelli, Milano 1967; oppure il libro di J.M.Muller, Strategia della nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975, con acclusa ottima bibliografia sulla nonviolenza curata da Matteo Soccio.
[8] si veda A.Gorz, M.Bosquet, Ecologie et Politique, Ed. du Seuil, Paris, 1978 (una traduzione italiana del libro è apparsa da Cappelli, Bologna nel 1978). Sulle conseguenze sociali della scelta nucleare si veda anche R.Jungk, Lo Stato atomico, Einaudi, Torino 1978. Sul nuovo modello di sviluppo si veda anche il mio, Energia nucleare e nuovo modello di sviluppo, in "Tecnologie semplici per una energia popolare", a cura del Centro Mazziano e del Movimento Nonviolento di Verona 1978, ora anche in A.l'Abate, Nuovo modello di sviluppo: un'utopia?, in corso di stampa.
[9] I.Illich, La Convivialità, A.Mondadori, Milano 1978. Sul pensiero di Illich si veda anche l'ottimo lavoro di A.Dall'Oglio, la critica sociale di Ivan Illich, in "Civiltà Cattolica", 3 aprile 1976, pp.48-53.
[10] H.Lefebvre, Spazi e politica, Milano Moizzi, 1976, p.59 .
[11] R.Dumont, L'utopie ou la mort, ed du Seuil, Paris 1973, pp.13-15.

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