ALDO CAPITINI e la POLITICA della NONVIOLENZA

Capitini e' essenzialmente un teorico della politica e non un politico, egli non e' l'ideologo di nessun partito e non ha nessuna tessera. Il suo credo politico e' l'omnicrazia cioe' il potere di tutti, che per lui non puo' prescindere dalla rigorosa applicazione dei principi della non violenza.
Le sue teorie sul problema del potere sono esposte nel suo libro (1958) "Aggiunta religiosa all'opposizione". e successivamente sviluppate in un foglio politico da lui fondato nel 1964 dal titolo "Il potere di tutti".
Esponenti universalmente riconosciuti della nonviolenza quali: Gandhi nella guida del popolo indiano verso l'indipendenza, Martin Luther King nell'azione per il riscatto dei negri negli U.S.A. e Giorgio La Pira nella difesa della classe operaia in Italia, sono stati i principali referenti di Capitini. Le sue teorie infatti stabilivano che solo dalla nonviolenza puo' derivare una politica omnicratica basata sul concetto della compresenza che costituisce il superamento delle teorie hegeliane e marxiste della politica. Coerentemente alle sue teorie si oppose al fascismo e successivamente, condanno' l'uso delle armi nella guerra di liberazione e sollecito' il riconoscimento dell'obiezione di coscienza. Tali teorie, per il nuovo modo di intendere la politica furono completamente disattese nel dopoguerra.

CONFRONTO TRA LE TEORIE HEGELIANE E MARXISTE E LE TESI CAPITINIANE DELLA COMPRESENZA

Hegel e Marx cercano un valore superiore alla limitatezza degli interessi della Societa' civile. Hegel lo individua nello Stato che e' una istituzione basata su una classe di funzionari, che ha un monarca al vertice e che agisce entro la dialettica storica; Marx individuo' questo valore superiore non nello Stato, che per lui non e' affatto al di sopra degli interessi, anzi e' al servizio degli interessi della parte dominante della societa' civile, ma nella classe oppressa che avrebbe liberato se' e trasformato tutta la societa' civile.
La proposta Capitiniana dell'omnicrazia differisce dalle tesi suesposte poiche' pone al di sopra degli interessi particolari la compresenza, che e' la realta' di Tutti e dei valori in un infinito accrescimento e promuove non i modi della guerra ma la permanente valorizzazione di tutti dal basso come assemblea. Infatti per Capitini la violenza, la dittatura, la distruzione degli avversari, la concezione terrena dell'individualita', non sono gli strumenti adeguati per trasformare gli elementi di naturalita' e violenza viventi nella societa' civile.

Capitini capisce che la teoria della non violenza deve misurarsi con il marxismo, l'ultima grande filosofia della storia e della prassi. Pur accogliendo le motivazioni profonde e umanissime che hanno ispirato il Marx e lo slancio rivoluzionario dei suoi continuatori, Capitini giudica il marxismo ancora limitato e chiuso, sia nel soggetto artefice della rivoluzione sia per i metodi di lotta. Capitini usa un'impostazione religiosa fondamentale a tutto il suo discorso: "Quando si dice realta' di tutti,si allude a una cosa maggiore del misurabile. Tutti non sono soltanto gli abitanti viventi di un luogo, di una citta', di uno Stato, di un continente della terra; sono tutti gli esseri del tipo umano, con cui possa essere stabilita una comunicazione in atto....".

"E gli esseri subumani? non e' sperabile un piu' fermo rapporto con loro? e gli esseri non piu' viventi, ma morti, non sono rimasti uniti (anche se invisibili) alla realta' di tutti? e poiche' ogni essere e' attivo e nell'unita' con tutti esplica un dare non percepibile, ma effettivo come aiuto a produrre valori (il bello, il vero, l'onesto, il generoso), poiche' non possiamo presumere di creare valori da soli, questa e' dunque una _compresenza_, cioe' la realta' di tutti vista come una profonda e aperta unita' creatrice connessa con ogni essere" Questa concezione cosi' profonda e dilatata del soggetto umano condiziona, come e' ovvio, la scelta dei mezzi per attuare la rivoluzione dell'omnicrazia da lui concepita.

Punto nodale della riflessione di Capitini e' il rapporto dei mezzi con il fine, che e' chiaramente illustrato nel capitolo intitolato "Una societa' per tutti" del libro `Religione aperta' in cui si legge: "Si tratta di fare in modo che quel fine non sia un qualche cosa di dipinto in fondo,interessando invece esclusivamente il mezzo; ma che quel fine viva gia' nella qualita' e nell'assunzione del mezzo,e sia li' evidentemente riconoscibile. Mettere del tempo nell'intervallo e rimandare a tempo indeterminato l'armonia del mezzo col fine, e' manifestare uno scarso interesse alla vita del fine, alla sua scelta, all'accorciamento della distanza da esso.

Se si ama il fine, esso pervade il presente, e lo muta, non rassegnandosi ad essere procrastinato indefinitamente. In questo caso, nel rinvio del fine e nell'assunzione di mezzi discordi da esso, diventa necessario imporre una fede che i mezzi discordi daranno certamente il fine promesso, una fiducia cieca, una obbedienza feudale. Ecco come si svolge il metodo della sottrazione della persuasione e dell'autocritica personale decentrata con la imposizione del massimo rilievo centralistico nella dittatura o potere assoluto, la cui onnipotenza puo' sola fare il miracolo di procurare, con mezzi discordi dal fine, la realizzazione di questo. Prassi che e' ingannevole non solo presso la periferia, la quale si ritrova o soggiogata o illusa, ma anche al centro stesso, dove mantiene l'autoillusione che si possa fare qualsiasi cosa, diffondere qualsiasi voce o qualsiasi calunnia, promuovere qualsiasi campagna anche falsa; senza che minimamente ci si accorga che questi modi non sono rispettosi dei cittadini, e che senza tale rispetto non li si potra' condurre a quel tal fine dipinto in fondo, cioe' al rispetto reciproco."

Capitini ha afferrato che la suprema posizione teorica da controbattere e' quella esposta dal Machiavelli nel noto postulato del "fine che giustifica i mezzi", sul quale poggia ogni prassi politica volta alla conquista del potere, o almeno poggiava, fino all'invenzione del metodo non violento di Gandhi. La non violenza si oppone radicalmente al criterio politico formulato dal Machiavelli nel "Principe", il cui nome non viene mai citato, e dal quale egli dice con Mazzini si puo' solo imparare come muoiono i popoli, non come si ribattezzano a nuova vita.

Capitini apprese dal suo maestro Gandhi il modo corretto di impostare il problema del rapporto fine-mezzi, che gli permise di superare, anche nella vita pratica, ogni machiavellismo politico.
La coscienza del valore dei mezzi in corrispondenza ai fini, della necessita' di costituire forze morali pure, per trasformare la societa', e' messa in prima linea dal Gandhismo.
Cosi' Capitini scriveva in un significativo capitolo del libro `Aggiunta religiosa all'opposizione'.

Per Capitini il duello dei tempi nuovi non avviene tra capitalismo e comunismo, ma tra questo e la non violenza, entrambi superiori e antitetici al capitalismo che, secondo lui, ha ormai perso ogni vitalita' ideale. Per Capitini Gandhi rimane da preferire a Marx per tanti aspetti. Non si puo' infatti dire che Gandhi e' un comunista non violento poiche' il gandhismo punta su un ordine sociale molto decentrato economicamente e politicamente, in cui ognuno compie il suo servizio in nome di Tutti, ed al riguardo Capitini dice: "il mio socialismo vuol dire Tutti fino all'ultimo".

CRITICA DELLA DEMOCRAZIA

Capitini da' un severo giudizio sul regime democratico. A suo parere l'omnicrazia deve sostituire il concetto ormai insufficiente di democrazia. Ecco perche' egli non propugna l'unita' tra socialismo e democrazia, e non perche' sia antisocialista o antidemocratico, ma perche' crede che il socialismo debba aprirsi a un valore superiore a quello incarnato dagli attuali regimi democratici. Sul finire della vita, Capitini ribadisce la proposta, gia' avanzata nell'immediato dopoguerra, di instituire dei Centri di Orientamento Sociale come istituzioni di base intese a sviluppare la democrazia diretta e di esercitare dal basso il nuovo tipo di potere, chiamato percio' omnicratico.

Questa forma di potere e' omogenea alla prassi della non violenza, ma costituisce anche il solo modo per risolvere il nodo del potere nei paesi industrializzati, nei quali si rivela il contrasto tra una civilta' che permette un maggior benessere, una miglior vita per tutti e le preesistenti forme di governo della societa'.

Capitini vuole preservare tutta la valenza positiva del metodo democratico, ma vede altresi' che le strutture sociali e le forze culturali, morali e religiose, dell'eta' contemporanea esigono un allargamento e un approfondimento della democrazia, che a suo giudizio, si puo' ottenere solo attraverso l'assunzione del metodo non violento.

In questo caso la non violenza e' un metodo immediatamente politico, che non solo realizza la potenzialita' della democrazia, radicandola alla base della societa', l'approfondisce e la esalta perche' attua delle procedure che non sono puri strumenti e mezzi. E' infatti finalizzata direttamente a costruire e garantire la coesistenza umana sino ai confini estremi del rispetto incondizionato dell'altrui vita.

CONTRO IL MILITARISMO

Il primo passo da compiere sulla via politica della non violenza e' quello di abbattere l'ostacolo maggiore rappresentato dalla tecnostruttura militare che connota lo Stato moderno. Oltre il regime parlamentare e' rimasta la guerra a impedire un ulteriore sviluppo democratico. Il rifiuto della guerra non e' solo etico-religioso ma anche politico, poiche' questa blocca lo sviluppo democratico , sottrae enormi mezzi allo sviluppo civile, genera l'involuzione della educazione democratica e aperta, riduce la liberta' e soffoca ogni proposta di miglioramento della Societa' civile e il controllo dal basso. E' difficile pensare che la natura possa distruggere in pochi minuti tante persone quanto ne distrusse la bomba atomica a Hiroshima, riducendone alcune ad una semplice tacca segnata sul muro. E quella bomba era di forza molto modesta rispetto alle bombe attuali! Il rifiuto della guerra e' percio' la condizione preliminare per parlare di un orientamento diverso, e se vediamo l'antitesi tra la natura come forza e la compresenza come unita' amore, e' chiaro che la guerra aggrava la natura, la sorpassa nella sua distruttivita', nella sua spietatezza rispetto ai singoli esseri.

L'esercito si pone come sostegno al potere assoluto centrale, e percio' va rifiutato dalla radice per un rinnovamento profondo. Per una posizione di nonviolenza e' da generalizzare l'insegnamento delle tecniche della nonviolenza, addestrando tutti a saperle usare. Tali tecniche possono valere per le traformazioni o rivoluzioni interne e per l'eventuale lotta contro invasori. Percio' il rifiuto assoluto della guerra e della guerriglia e della tortura e del terrorismo ( che accompagnano sempre la guerra e la guerriglia), e' il punto di partenza, la svolta, la condizione assoluta di una nuova impostazione del potere: l'omnicrazia autentica comincia da quel rifiuto perche' non elimina nessuno avversario e da' vita permanente ai due preziosi strumenti che sono le assemblee e l'opinione pubblica. Quindi Capitini si oppone anche alla guerriglia non solo per motivi di fedelta' alla nonviolenza, ma anche perche' reputa che sul piano della efficacia politica essa sia controproducente. Disapprova dunque il mezzo violento della rivoluzione pur ammettendone il fine,cioe' le giuste esigenze e la necessita' di questa. In conclusione, la scelta dipende dalla certezza che il metodo nonviolento assicura a lungo andare una maggiore stabilita' delle conquiste. Egli scriveva queste cose alla fine degli anni sessanta che avevano visto scoppiare in continuazione guerre di liberazione nel Terzo Mondo. Pur non condividendone i motivi, egli non esitava a manifestare le sue perplessita' perche' intravedeva come, attraverso l'uso della violenza, l'evoluzione di quelle nazioni andasse ricopiando pericolosamente la vecchia struttura statale, accentratrice e militaresca, che i popoli del Nord del pianeta si trovano ancora ad avere. La conferenza di Bandung del 1955 nella quale sembrava emergere la possibilita' di un neutralismo attivo da parte dei paesi del Terzo Mondo era ormai lontana. Capitini ammette di essersi illuso, sperando che da essa e sotto l'impulso dei tre grandi protagonisti - Nasser, Nehru e Tito, leaders d'Egitto, India e Jugoslavia - potesse nascere quasi una internazionale della nonviolenza che riconducesse a ragione il vecchio mondo occidentale e quello sovietico. Egli ripone allora la speranza nella "forza preziosa dei piccoli gruppi" che non sono certo rappresentati dagli studenti contestatori di quel mitico, ma per Capitini troppo violento, '68. Insomma il principale, se non esclusivo, criterio politico per giudicare avvenimenti internazionali o interni ai singoli paesi, e' dato sempre dalla nonviolenza. E' ovvio pero' che la violenza massima e' insediata nei due blocchi dell'Est e dell'Ovest: contro questi due imperi devono misurarsi i piccoli gruppi nonviolenti. Una politica della nonviolenza si contrappone dal di dentro e dal basso alle direzioni imperiali. Che lo Stato sia giunto ad essere cosi' carico di potenza distruttiva, come e' nell'uno impero e nell'altro, e' il segno che bisogna urgentemente contrapporvi altro. E questo altro non puo' essere che dal basso, pur non escludendo che sul piano politico possa avere un valore di freno l'estensione del numero dei paesi non legati ai blocchi, un freno mentre in tutto il mondo si vengono preparando forze dal basso e dal di dentro che siano altro dagli imperi. Dunque la nonviolenza costituisce la sola e unica alternativa all'attuale modo di far politica nel mondo o all'interno delle singole nazioni. Capitini non e' molto fiducioso nelle possibilita' del dialogo tra le due superpotenze oppure tra cattolici e comunisti in Italia.

Donatella Puleo - - Livorno, settembre 1994